N. Marzo 2018
a cura di Ezio Viola
Managing Director, The Innovation Group
Il recente caso del braccialetto digitale progettato da Amazon da utilizzare per facilitare il lavoro nei magazzini per rintracciare la merce ci deve fare riflettere su diversi elementi. Il primo è come sia facile nel nostro Paese scatenare polemiche mediatiche con forti strumentalizzazioni da parte di una moltitudine di soggetti che molte volte non sanno di cosa parlano. I fatti sono i seguenti: questo braccialetto è un brevetto depositato da Amazon la cui richiesta iniziale del 2016, è stata approvata solo recentemente. Spesso questi brevetti vengono depositati da aziende come Amazon anche solo per segnalare, ed eventualmente rivendicare in futuro, una proprietà. Il brevetto in sè, insomma, non basta a dimostrare che l’azienda in futuro applicherà quell’idea, anche se Amazon non è nuova all’abitudine di testare direttamente le tecnologie che punta a introdurre sul mercato. Il braccialetto può potenzialmente essere utilizzato anche per controllare i dipendenti. Se riflettiamo, strumenti simili già esistono per monitorare la corretta applicazione delle misure di salute e sicurezza sul lavoro, migliorare l’efficienza del processo produttivo e supportare i dipendenti nello svolgimento di specifiche attività lavorative. Volendo con gli smartphone usati da ogni dipendente, l’azienda potrebbe identificare dove sono in ogni momento e il fatto che, sempre teoricamente, si possa fare lo stesso con i braccialetti elettronici non cambia la sostanza. In realtà non è la tecnologia che deve essere bloccata ma è il suo uso a dover essere controllato per garantire i diritti delle persone. Inoltre l’utilizzo è regolato da normative e leggi che disciplinano, tra l’altro, la protezione dei dati personali e le tutele dei lavoratori, assegnando un ruolo centrale alla negoziazione tra azienda e rappresentanza sindacale.
Se mai Amazon volesse introdurre il braccialetto nei suoi magazzini in Italia, dovrà rispettare le norme e convincere i sindacati dell’opportunità della cosa. Questo può piacere o no, ma è un dato di fatto su cui si è completamente sorvolato in questi giorni. Questa storia è la tipica “fake news” che purtroppo dimostra l’esistenza di un pregiudizio di fondo contro l’innovazione nel nostro Paese dove la prima reazione a qualsiasi cambiamento sta diventando un “no” preventivo e obbligatorio.
L’altro aspetto su cui nessuno si è soffermato, è che il braccialetto intelligente è solo l’ultimo esempio di un processo e trend già consolidati: attraverso le tecnologie e i device che utilizziamo per accedere a internet noi tutti siamo delle sorgenti e dei generatori di dati fin dalla mattina quando accendiamo il nostro smartphone. Questi dati sono la più importante risorsa per le aziende, internet in primis. i giganti del web che tutti conosciamo. Questo ruolo che ognuno di noi ha di creatore di dati nell’economia è ciò di cui dovremmo incominciare a pensare più a fondo. Uno studio recente elaborato da diversi economisti e tecnologici (1) propone una tesi molto controversa ma da porre sul tavolo: noi siamo quindi tutti dei “lavoratori digitali”, e in prospettiva possiamo diventare parte di una nuova classe sociale, che sta rendendo possibile la fortuna di aziende come Google, Facebook, Amazon etc. Per garantire il progresso economico ed evitare una crisi occupazionale legata al progresso tecnologico, come molti osservatori paventano con l’utilizzo delle nuove tecnologie cognitive e di AI, dobbiamo incominciare ad essere più consapevoli di questo fatto e pensare di cambiare la relazione tra le aziende internet e i loro utilizzatori. Infatti l’AI sta progredendo e può trasformare molti settori: le tecnologie di machine learning usate per imparare a guidare un’automobile o riconoscere un viso hanno bisogno di imparare utilizzando una grande quantità di dati e le aziende internet li ottengono gratis tutte le volte che interagiamo con loro o con i device con cui accediamo ai loro servizi, siano essi smartphone, wearable, personal assistant etc… Si è vero riceviamo e siamo abituati ad usare molti servizi gratis da queste aziende e ne siamo contenti e soddisfatti. Il valore dei dati và ad accrescere sempre di più il loro capitale e la loro capacità di investimento in nuovi servizi e di entrare in nuovi settori adiacenti. Queste aziende sono delle vere e proprie piattaforme digitali globali che costruiscono ecosistemi di cui sono gli orchestratori dominanti. Lo studio afferma anche che uno dei problemi, per cui il contributo dell’AI è ancora scarso alla crescita della produttività è dovuto anche ai limiti della qualità dei dati raccolti. Le aziende sono alla ricerca di modalità per “forzare” gli utenti a fornire dati migliori a nessun costo aggiuntivo. L’utilizzo della AI impatterà su molti lavori e ancor di più il valore economico generato dai dati andrà sempre di più alle aziende e poco ai lavoratori in forma di salari e stipendi. Lo studio quindi ha una proposta radicale: i dati devono essere trattati come “fattore lavoro” da remunerare e non come capitale e la loro proprietà rimane a coloro che generano queste informazioni a meno che decidono di fornirli in cambio di un pagamento. In tale modo i dati possono anche essere venduti a diverse aziende e non costituire più una barriera all’ingresso per le altre e il prezzo a cui sono venduti può essere anche finalizzato a migliorare la qualità dei dati raccolti. In questa prospettiva, generare i dati diventa anche una forma di occupazione in un mondo fortemente automatizzato. Queste proposte sono si controverse e forse non realizzabili ma ci devono fare riflettere e dovrebbero stimolare una discussione sul ruolo dei dati e su cosa sia e potrebbe essere o diventare l’economia, oggi fortemente sbilanciata in termini di potere dovuto alla sua concentrazione in poche aziende. Il potere contrattuale dei nuovi lavoratori di dati potrà esistere solo attraverso una azione collettiva. Ciò ci mette di fronte alla natura condivisa del valore economico creato dai dati che dovrà essere distribuito anche in modo più equo, ma di questo nessuno ne parla.
(1)Should we Treat data ad Labor? Moving beyond “Free”: Imanol Arrieta Ibarra, Leonard Goff, Diego Jimenez Hernandez, Jaron Lanier and Glen Weyl
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