A cura di Roberto Masiero, President, The Innovation Group
- – Le reali dimensioni del “digital skill mismatch”
- – La proposta di Bill Gates e l’ondata di reazioni.
– Politiche per ridurre l’impatto dell’automazione sull’occupazione
– Redistribuire il valore dei dati per finanziare un nuovo welfare?
Le reali dimensioni del “digital skill mismatch”
Nello scorso numero di questa Newsletter abbiamo anticipato il tema del rapporto tra rivoluzione digitale e il futuro del lavoro; individuavamo nel “digital skill mismatch” la principale criticità che il mercato del lavoro deve affrontare come effetto dei processi di trasformazione digitale. Dicevamo a questo proposito:
“Il tema chiave può essere così riassunto: siamo di fronte a un processo drammatico, aggravato dai tempi rapidissimi della trasformazione digitale, che apre certamente grandi possibilità di nuova occupazione, ma rende rapidamente obsolete una grande quantità di competenze “tradizionali”. Il problema è che il digitale crea molti nuovi posti di lavoro, ma questi non sono destinati ad essere occupati da coloro che il lavoro lo stanno perdendo, che sono molti di più. Il dato è aggravato dal fatto che le due onde sono asincrone: i lavori tradizionali sono falcidiati immediatamente, mentre il decollo delle nuove competenze digitali è rallentato dal collo di bottiglia dei meccanismi di formazione.” (1)
Nel corso dell’ultimo mese sono emersi due fatti nuovi:
- E’ stato diffuso un nuovo studio un nuovo studio di Carl Benedikt Frey, della Oxford Martin School, che aggiorna e dettaglia i rischi di impatto dell’automazione sul mercato del lavoro, sulla distribuzione della ricchezza e sulle politiche destinate a limitare questi rischi (2) (vedi infografica)
- La settimana scorsa è stata poi dominata dal dibattito sulla provocatoria risposta di Bill Gates: “Se un lavoratore umano guadagna 50mila dollari lavorando in una fabbrica, il suo reddito è tassato. Se un robot svolge il suo stesso lavoro dovrebbe essere tassato al suo stesso livello” (3)
La proposta di Bill Gates e l’ondata di reazioni.
L’obiettivo della proposta: destinare i proventi di questa tassazione a sostenere quei “lavoratori che, usciti dalle fabbriche, si potrebbero dedicare a offrire servizi per gli anziani, a insegnare nelle scuole, ad aiutare i bambini che hanno bisogni speciali (4).”
La proposta ha suscitato un’ondata di reazioni, per la maggior parte negative.
Il Prof. Carlo Alberto Carnevale Maffè l’ha bollata come un’idiozia economica: “Tassare l’uso dei robot è un’idiozia economica. Storicamente sappiamo che la tassazione dei fattori produttivi che generano efficienza è un errore gravissimo, perché impoverisce tutta la società, compresi quelli che potrebbero beneficiare dei trasferimenti fiscali generati dalla maggiore produttività”. (5)
Ma non tutte le reazioni sono così negative.
Un osservatore attento come Giorgio De Rita riconosce alla proposta di Bill Gates almeno due pregi: quello di riconoscere che, se l’innovazione distrugge posti di lavoro, qualcuno deve ben sostenerne i costi e, inoltre, che in un mondo che continua a chiedere di ridurre le tasse delle imprese per sostenere la crescita economica, Bill Gates propone di far pagare agli innovatori una tassa sull’innovazione. (6)
Detto ciò, De Rita rileva che, se la provocazione è interessante, l’ipotesi tuttavia non è né efficace nè sostenibile, poiché una tassa sui robot genererebbe un reddito trascurabile e non cambierebbe nulla per chi la paga: e i posti di lavoro non sarebbero comunque salvaguardati. (7)
Più positivo il giudizio di alcuni osservatori internazionali, come ad esempio Ian Morris di Forbes, che collega apertamente la proposta di Gates a quella di Elon Musk per un ”universal basic income”:
“THERE IS A PRETTY GOOD CHANCE WE END UP WITH A UNIVERSAL BASIC INCOME, OR SOMETHING LIKE THAT, DUE TO AUTOMATION.” – Elon Musk, Founder and CEO of SolarCity, Tesla, and SpaceX (8)
“This also fits in nicely with the idea that perhaps, the answer to some of society’s problems is to introduce a universal basic income… What we should be left with are companies that can produce things, or offer services with much lower overheads. They can work robots at 100% capacity all the time – humans never get close to that – and the price of things will come down. Add on a universal basic income, funded from the robot tax, and every human will have a monthly payment that they use to live on.” (9)
Elon Musk, che non sembra propriamente un socialista, sembra reintrodurre in questo modo l’utopia marxiana della liberazione dal lavoro.
Più realisticamente, il tema che si pone oggi è: la digitalizzazione, la robotizzazione e il grande valore che si può generare attraverso la rivoluzione dei dati, possono contribuire a finanziare un nuovo welfare?
Politiche per ridurre l’impatto dell’automazione sull’occupazione
Il prof Carnevale Maffè introduce due punti importanti a questo proposito: “La sostituzione tecnologica è una sostituzione strutturale e permanente che va affrontata sotto due punti di vista: il primo è quello della employability, cioè del garantire che ci sia la possibilità di imparare nuovi lavori; il secondo, quando il primo non sia possibile, è pensare a un’ipotesi di welfare, cioè di tutela.” (10)
In merito al primo, molti concordano sul fatto che la prima politica per ridurre l’impatto dell’automazione sull’occupazione debba fondarsi su un investimento imponente in formazione. Ma sorge una domanda: considerando che il digitale richiede una flessibilità mentale e una “velocità neuronale” caratteristica dei giovani, non vale forse la pena di orientare gli investimenti in re-training di quei lavoratori in età matura, a bassa qualificazione espulsi dal processo produttivo in direzione di servizi socialmente utili in cui potrebbero risultare molto più efficaci, come quello dei servizi alla persona?
E questo introduce il tema del rapporto tra il digitale e il nuovo welfare.
Redistribuire il valore dei dati per finanziare un nuovo welfare?
Che lo stato sociale sia in crisi è cosa ormai drammaticamente nota: la contrazione delle risorse, la crisi della classe media e l’invecchiamento della popolazione hanno messo in crisi i vecchi modelli assistenziali, e sono affrontabili solo attraverso la diffusione di una nuova economia della sussidiarietà, basata sulla collaborazione di pubblico, privato e terzo settore.
Ma questo nuovo welfare può trarre le risorse necessarie a sostenerlo solo attraverso un processo di redistribuzione dell’enorme valore generato all’economia dei dati, che va molto oltre i margini di recupero di efficienza consentiti dalla robotizzazione.
Sostiene infatti Michele Vianello in un suo recente intervento: “La vera fonte di reddito e di profitto nell’epoca del digitale è data dalla capacità di fruire, trattare e visualizzare infinite quantità di dati. Come si capirà, il tassare i profitti che provengono dall’uso dei dati è una risposta del tutto parziale… La vera riflessione da fare dovrebbe imperniarsi invece sulla capacità di regolare lo scambio (individuale o collettivo) tra la produzione di dati e il profitto da essi generato. Se i dati, opportunamente trattati, venissero quantizzati e resi noti, trasparenti (sveglia amici dell’open data!), il valore ricavato dalla vendita del dato potrebbe abbattere il costo della bolletta.”
“Perché la città smart invece che essere definita in base alla quantità di tecnologie non viene all’opposto valutata sulla qualità/quantità di dati condivisi? Perché il welfare cittadino, l’abitare cittadino non possono essere parzialmente finanziati dall’uso intelligente dei dati prodotti da I.O.T.? Parlare di umanesimo digitale è, prima di tutto, capire come si redistribuisce il valore prodotto dai dati.” (11)
Un richiamo a una realistica considerazione della situazione del nostro Paese viene infine dal Segretario Generale della Fim Cisl, Marco Bentivogli:
“Il nostro è un Paese che già di per sé si occupa solo del paracadute senza aver ancora imparato a volare. Siamo il Paese che ha il più elevato gap di competenze rispetto agli skill del futuro. Ci occupiamo rapidamente di colmarlo, come abbiamo fatto nei metalmeccanici, introducendo nel contratto il diritto soggettivo alla formazione, o prima ancora di aver giocato la sfida ci occupiamo di sussidiare gli effetti collaterali? Continuo a pensare che tra liberarsi dal lavoro e liberarsi nel lavoro, la seconda non sia virtuosa ma l’unica strada sostenibile. La strada di detassare seriamente il lavoro umano è quella che orienta maggiormente alla sostenibilità questa evoluzione. Fermare il progresso non è di sinistra, è velleitario, è fermare l’acqua con le mani e serve ad assicurare una maggior quantità di lavoratori all’esclusione sociale.” (12)
Note:
1) – Roberto Masiero, “Il digitale e la trasformazione del lavoro” – Il Caffè Digitale, Febbraio 2017
2) – Carl Benedikt Frey, “Technology at Work 2.0” – Oxford Martin School, 2016
3) – Bill Gates, citato da Luca Tremolada, “La strana idea di tassare i Robot”- Il Sole 24 Ore, 21 febbraio 2017
4) – Luca De Biase,”Il pericolo di frenare il progresso tecnologico” , Il Sole 24 Ore, 21 febbraio 2017
5) – Carlo Alberto Carnevale Maffè, “Proposta Gates, idiozia economica”, CorCom, 21 febbraio 2017
6) – Giorgio De Rita, “ Perché Bill Gates sbaglia a voler tassare i robot”, AGI.it, 21 febbraio 2017
7) – Giorgio De Rita, “Perché Bill Gates sbaglia a voler tassare i robot”, AGI.it, 21 febbraio 2017
8) – Elon Musk, citato da Catherine Clifford “Elon Musk says robots will push us to a universal basic income—here’s how it would work”, CNBC Make It, 18 novembre 2016
9) – Ian Morris, “’Tax The Robots’ Says Bill Gates”, Forbes, Feb 17, 2017
10) – Carlo Alberto Carnevale Maffè, “Proposta Gates, idiozia economica”, CorCom, 21 febbraio 2017
11) – Michele Vianello, “ Perché il PD parla di date e non discute di welfare nell’era del digitale?”, Il blog di Michele Vianello, 22 febbraio 2017
12) – Marco Bentivogli, “Né con la tassa dei robot né con il sussidio di cittadinanza”, 22 febbraio 2017
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