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Stress da lockdown e da post pandemia, come uscirne?

Qual è la cura per lo stress da lockdown sperimentato da miliardi di persone durante questi due anni di convivenza con il covid-19? Le tecnologie ci hanno certamente aiutati ad attraversare la pandemia, ma non senza risvolti negativi. La crisi pandemica ha contribuito  – se mai ce ne fosse bisogno  – a peggiorare le invasioni di campo della tecnologia nella privacy delle persone comuni, alimentando ancor di più le attività di data mining condotte tramite social media e attraverso le applicazioni di tracciamento. Allo stress da lockdown si è sovrapposto e alternato lo “stress da post pandemia”, se così vogliamo chiamarlo, perché il ritorno altalenante alle relazioni sociali e al lavoro in presenza ci ha obbligati ad accettare nuovi cambiamenti.

Quello dipinto da Rachael Kent, docente e ricercatrice del dipartimento Digital Humanities del King’s College London, è uno scenario complesso, in cui dinamiche psicologiche, sociologiche ed economiche si sovrappongono alle nostre abitudini digitali. Ma questa complessità forse non la cogliamo, perché molte di queste dinamiche sono diventate la normalità. Kent, autrice del saggio “The Health Self’ – Digital Performativity and Health Management in Everyday Life” e consulente sul tema della “salute digitale”, consiglia invece a tutti noi di provare a scardinare questa finta normalità per combattere al contempo lo stress da pandemia (e da tecnologia) e le invasioni di privacy.

In questa intervista la ricercatrice ci parla di quanto emerso dal suo studio empirico “Covid 19 and Digital Behaviours”, della trasformazione del nostro rapporto con i social media, della cultura della competizione e delle buone abitudini da adottare per disintossicarsi da un utilizzo compulsivo delle tecnologie.

Dopo aver affrontato lo stress da lockdown, come sono cambiate le nostre abitudini digitali oggi?

È importante ricordare che stiamo sperimentando un processo di trauma collettivo e un periodo esteso di stress che va avanti da due anni (e che proseguirà) di convivenza con il covid-19 e restrizioni. A questo si aggiungono il sovraccarico tecnologico e l’affaticamento digitale dovuti al trasferimento di gran parte delle nostre vite su uno schermo durante questo periodo, un fatto che ha avuto un crescente impatto deleterio e stressante sulla nostra salute fisica e mentale. Le nostre esistenze oggi sono saturate dalle tecnologie digitali che fanno da mediatori tra diversi ambiti della nostra vita, e questo a sua volta significa che le interazioni faccia a faccia diminuiscono mentre accelerano i sentimenti di isolamento e distanza. Siamo esseri sociali e questo ha un impatto davvero drammatico soprattutto sulla salute mentale.

Durante l’ultimo biennio molti ambiti della nostra vita – le comunicazioni, la socialità, il lavoro e il tempo libero – sono diventati sempre più mediati dagli schermi, dunque la tecnologia è diventata un’estensione della nostra sfera fisica nella quotidianità. Nella mia attività di consulenza sul benessere aziendale, Dr. Digital Health, i clienti sottolineano le difficoltà di dover gestire in forma digitale, da casa, numerosi ambiti della vita che vanno dalla socialità alla comunicazione, dalla prevenzione sanitaria agli acquisti, dalle consegne di cibo all’intrattenimento (musica, Netflix, eccetera), fino agli impegni personali e professionali. Questo confonde sempre di più la separazione mentale e fisica tra il lavoro e il tempo libero in casa. Di riflesso, ciò provoca ossessioni tecnologiche, saturazione digitale e un’incapacità di staccarsi dal mondo online. Abbiamo una compulsione allo scrolling perché le applicazioni e le piattaforme digitali sono progettate e costruite in modo tale da trattenerci su di essere. Le infrastrutture tecno-commerciali vogliono la nostra attenzione, che oggi rappresenta un’economia e una commodity.

C’è poi il fenomeno della produttività tossica. Uno tra i comportamenti più impegnativi emersi dai lockdown, specie dai primi, è lo spostamento culturale dalla paura di lasciarsi sfuggire qualcosa (fear of missing out) alla paura di non essere percepiti come produttivi. Questo è cominciato con i social media, specie su  Instagram, Facebook e Twitter, con la condivisione di etichette che riflettevano una comunicazione di crescente intimità e che portavano le reti personali all’interno delle case, e con pratiche di isolamento quotidiano. In un breve lasso di tempo, i contenuti hanno smesso di essere empatici e di supporto per le sfide che tutti (anche se in circostanze molto diversificate) stavamo affrontando, per trasformarsi rapidamente nella condivisione di contenuti di isolamento da “crescita personale”. Cose come imparare una nuova lingua, ristrutturare casa o diventare un panettiere venivano presentate come obiettivi di vita raggiungibili dall’oggi al domani. Questa produttività tossica è stata celebrata online in modo tanto ampio da attraversare i confini tra le piattaforme, i generi e i settori di mercato, perché i lockdown produttivi significavano successo, felicità e trasformazione personale a dispetto della tragedia che si dispiegava a livello mondiale.

C’è stato, poi, un crescente “capitalismo della piattaforma”. La società basata sul digitale e sulla sorveglianza, in cui oggi viviamo, ha accelerato l’utilizzo di dispositivi, il tempo passato davanti a uno schermo e la dipendenza dal capitalismo delle piattaforme, che veicolano le nostre vite personali e professionali nel quotidiano. Quelli di noi che prima della pandemia usavano una manciata di applicazioni e piattaforme ora ne integrano una moltitudine, a decine o addirittura a centinaia, nelle loro vite quotidiane. La nostra crescente dipendenza dei monoliti tecnologici e dai loro app store, per poter accedere a tutti questi servizi e prodotti, ci pone in posizione di maggior svantaggio in termini di potere del consumatore, dato che possiamo accedere a questi strumenti solo tramite due negozi di applicazioni, quelli di Alphabet e di Apple. In cambio, questi colossi diventano sempre più anticompetitivi e onnipresenti nel dominare le nostre abitudini di consumo tecnologico quotidiano, e approfittano dal punto di vista commerciale di queste abitudini ormai normalizzate.

Al loro esordio, le applicazioni di tracciamento dei contagi hanno raccolto preoccupazioni di privacy. Sono giustificate?

L’uso gratuito dei social media e di applicazioni di auto-tracciamento, al costo però di una perdita di privacy personale tramite il data mining di colossi tecnologici, multinazionali e terze parti, ha normalizzato il fatto che la privacy per molti utenti non sia più un diritto umano. Perdere la privacy attraverso una mancanza di scelta o di controllo non è mai etico. Nel capitalismo della sorveglianza gli utenti hanno, problematicamente, un potere molto piccolo di sfidare questi termini e condizioni a cui dobbiamo sottostare per poter usare le piattaforme, i prodotti e servizi digitali. La saturazione di queste piattaforme nelle nostre vite quotidiane sposta la nostra concezione della salute e dell’identità personale, mentre normalizziamo l’autosorveglianza e la sorveglianza. Queste abitudini possono danneggiare la nostra salute mentale e fisica, spingendoci a competere e a confrontare i nostri stili di vita e il nostro aspetto con quelli degli altri. 

Dunque, non è certamente un paradosso attendersi un uso dei dati personali e della privacy nelle applicazioni di contact tracing, specie quelle che in molti Paesi sono di utilizzo non volontario in risposta alla gestione del virus. Le applicazioni mediche di digital health, che i governi e i sistemi sanitari hanno adottato per gestire la salute pubblica, dovrebbero sempre proteggere i dati personali e la privacy dei cittadini. Le preoccupazioni sul data mining sono giustificate e per i cittadini e pazienti dovrebbe esserci trasparenza sul modo in cui i dati vengono usati. 

Che cosa possiamo aspettarci per il futuro?

Dopo due anni di convivenza con la pandemia e con le sue restrizioni, è importante riconoscere il loro impatto cumulativo deleterio sulla nostra salute mentale. Inoltre è incredibilmente importante dare priorità alla salute e alla felicità, e un modo per farlo è identificare i comportamenti digitali che potrebbero impattare negativamente sulla nostra salute mentale o fisica. Il mio primo consiglio è quello di riconoscere che è perfettamente naturale, oggi, sentirsi travolti dalla saturazione tecnologica nelle vostre vite professionali e private. Molti di noi nel rapportarsi alla tecnologia hanno tratti e comportamenti compulsivi e che causano dipendenza.

Uscire da un lockdown è un processo di ri-socializzazione e di riambientamento a una crescente socialità, a fronte di un minor tempo speso davanti allo schermo come mezzo di comunicazione e vita sociale. Questo è un processo di riapprendimento alle interazioni faccia a faccia, sia personali sia professionali, che può essere estenuante e abbiamo bisogno di tempo per adattarci e riprenderci dalle molte ore trascorse fuori casa.

I lockdown hanno portato via la socialità faccia a faccia, che è a volte più faticosa fisicamente e mentalmente. Ci siamo abituati al fare meno, al vedere meno le persone o al vederle tramite schermo, in un’interazione differente. Incontrarci di persona di nuovo può sembrare strano e bellissimo, non aspettatevi che le cose sembrino completamente facili fin da subito o che i vostri livelli di energia siano sufficienti a fare tutto ciò che vorreste fare. Quando pensate alla ri-socializzazione dopo un lockdown e a come gestire lo stress che questo può generare sulla vostra salute mentale e fisica, siate consapevoli del processo e autoriflessivi e non fate pressione su voi stessi, per fare troppo e anzitempo. La mia ricerca empirica ha dimostrato che mantenere abitudini tecnologiche salutari può migliorare drasticamente il benessere mentale e fisico.

Ci dà qualche consiglio pratico per migliorare la nostra “salute digitale”?

  • Staccatevi fisicamente dai vostri dispositivi

Il vostro telefono non è il vostro compagno. Allontanarsi fisicamente dai nostri dispositivi tecnologici ci aiuta a “spegnere” e a resettare i nostri comportamenti digitali abituali. Camminare e fare attività fisica nella natura ci aiuta a staccare, dà tregua alle ansie legate alla pandemia e migliora la salute del corpo e della mente. Se avete bisogno di portarvi dietro il telefono per ragioni personali o lavorativi, disattivate il traffico dati per restringere la tentazione di controllare le notifiche.

  • Tracciate dei limiti

Abbiamo normalizzato il fatto di essere sempre disponibili, ora de-normalizziamolo! Questo ha causato una confusione tra il tempo lavorativo e il tempo libero. Riprendete il controllo sulla tecnologia e stabilite dei limiti con semplici strategie, come quelle di riporre i dispositivi di lavoro o chiudere la porta dell’ufficio domestico la sera e nei weekend, di cancellare le email di lavoro dal telefono e di stabilire dei periodi di “digital detox” ogni settimana. Questo aiuta a gestire in modo efficace la stressante sfida della cultura dell’”always on”.

  • Traete conforto dalle costanti

Siate gentili con voi stessi. Ricordate le cose che nell’ultimo inverno e magari anche nei lockdown vi hanno dato nutrimento e vi hanno aiutati ad andare avanti, e tornate a queste cose per supportarvi in questo periodo di perduranti sfide, che si tratti di esercizio fisico, di esplorare nuove cucine, di digital detox o di apprendere nuovi hobby. Non sentitevi strani se provate un senso di nostalgia per il semplice letargo.

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