A cura di Camilla Bellini, Senior Analyst, The Innovation Group
Il digitale ha portato negli ultimi anni ad un nuovo modo di conoscere oggetti, persone e relazioni. Non si tratta più di avere a disposizione piccole quantità di dati ed informazioni, ma di utilizzare grandi moli di dati per accrescere la capacità di comprendere fenomeni e comportamenti.
Qualche anno fa, durante il suo discorso al TED Salon di Berlino[1], Kennet N. Cukier, Data Editor di The Economist, ha raccontato come la consapevolezza nazionale di quale fosse il dolce preferito dalle famiglie americane fosse in realtà il risultato di una media approssimata tra i gusti di tutti i membri di una famiglia: l’apple pie, il dolce americano per antonomasia, non è in realtà la prima scelta di ciascun americano, ma la seconda, quella su cui tutti concordano non riuscendo ad accordarsi sulla prima scelta. La scarsa conoscenza dei comportamenti e delle preferenze, così come l’adozione di un approccio statistico “mediano”, ha portato quindi l’opinione pubblica a condividere il fatto che l’Apple Pie fosse il dolce preferito da tutti gli americani: la verità invece è che un numero maggiore di informazioni permettono di comprendere che il dolce preferito negli USA è un altro.
Ciò che questo esempio dimostra è che i Big Data hanno permesso di avere una migliore visione dei fenomeni, fornendo le informazioni necessarie per ridurre l’approssimazione e fornire una consapevolezza della realtà che tenga conto anche delle code e degli outliers: le preferenze e le preferenze riacquistano profondità, e la conoscenza della realtà riacquista consapevolezza dei suoi paesaggi e della sua morfologia.
Ma i Big Data non si generano in isolamento. È la stessa realtà che essi descrivono che li produce: sono il digitale e i suoi nuovi strumenti, tra cui l’IoT, che consentono di tradurre i meccanismi e gli accadimenti reali, così come le variazioni di stato e le trasformazioni, in dati e informazioni. Nasce così il termine “Datafication”, ad identificare la trasformazione di fenomeni ed aspetti reali in dati e informazioni digitali, in bit e byte.
Facebook, LinkedIn, Google, General Electric sono solo alcune, forse le più note, delle imprese che basano il proprio business sulla datafication. Facebook ha trasformato le relazioni amichevoli in un network digitale; LinkedIn lo ha fatto per i contatti professionali; Google ha trasformato in informazioni digitali le query e i quesiti sui suoi motori di ricerca; GE ha trasformato in dati i propri impianti e turbine.
Ma ne esistono sicuramente altre che, magari in modo meno evidente, stanno affrontando questo meccanismo di trasformazione per ripensare non solo il proprio business ma anche l’organizzazione interna e il proprio funzionamento. È indubbio che uno degli ambiti più toccati dalla datafication sia il marketing e la customer experience: conoscere meglio i clienti e il loro modo di agire, trasformando i loro comportamenti in dati da analizzare ed agire sulla base delle informazioni disponibili è infatti diventato il nuovo cavallo di battaglia di settori quali il retail e i consumer goods. Ma anche la funzione HR, che ha il compito di tracciare e gestire comportamenti e relazioni all’interno dell’azienda, vede la sua attività trasformarsi radicalmente a fronte dell’aumento potenziale di dati e alle crescenti informazioni disponibili in relazione a dipendenti, alle loro abitudini e ai loro comportamenti all’interno dello spazio lavorativo.
È dunque evidente come il processo di datafication stia cambiando sia il funzionamento interno dell’azienda e il suo modo di relazionarsi con dipendenti e clienti, sia i modelli di business delle imprese che operano in diversi settori, che sempre più orientano il proprio business sula disponibilità e l’utilizzo di grandi moli di dati.
[1] “Why Big Data is a Big Deal?”, keynote presso il TED Salon, June 23, 2014, Berlino
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