N. Giugno 2018
a cura di Mauro Biscotti
Senior Associate Consultant, The Innovation Group
L’importanza del linguaggio nella determinazione della prestazione organizzativa
Ancora studente, mi capitò di partecipare ad un convegno di IBM su processi cognitivi e linguaggio. L’interessante tesi sostenuta in una delle sessioni era che le caratteristiche del linguaggio utilizzato possono condizionare in modo significativo le capacità e le prestazioni di organizzazioni e di intere società. Rammento l’esempio della storica eccellenza tedesca nell’ingegneria meccanica: il relatore riteneva fosse correlabile (anche) alle caratteristiche della loro lingua, capace di esprimere in modo preciso, con poche parole, forme e relazioni spaziali complesse.
Ora, mentre aiuto le organizzazioni ad affrontare le sfide del cambiamento e della trasformazione Digitale, mi è chiaro che il linguaggio ne è un aspetto sempre più critico: le parole usate in azienda faticano a descriverne le dinamiche ed i fenomeni in modo adeguato, esaustivo.
Il problema non concerne solo i termini nuovi, introdotti per dare un nome alle innovazioni sociali e tecnologiche, ma anche e soprattutto le parole di uso più comune, consolidato, la cui mancanza di chiarezza costituisce un punto di debolezza nel funzionamento dell’organizzazione.
Cosa significa “team?”. Cosa significa “progetto”? Cosa significa “cultura”? Le risposte che si possono raccogliere, facendo interviste casuali in azienda, sorprendono talvolta per varietà e inconsistenza.
L’ovvietà delle risposte è infatti solo apparente, e nell’articolazione dei significati attribuibili a queste parole si giocano implicazioni rilevanti dal punto di vista dell’impostazione e gestione quotidiana del lavoro.
Un gruppo di persone accomunate dall’appartenenza ad un progetto o ad un ufficio non sono un “team”: questa parola dovrebbe essere riservata per descrivere un’entità organizzativa specifica, un insieme di persone caratterizzate da interdipendenze e dinamiche organizzative particolari. Una distinzione essenziale nell’azienda Agile.
“Progetto”, “iniziativa”, “attività, non sono sinonimi. Nell’ambito di un modello di governo strutturato, la parola “progetto” deve connotare un perimetro di attività organizzate con presupposti informativi precisi ed un ciclo di vita definito. Prima di essere approvato ed inserito in un portafoglio esecutivo, il progetto non esiste, e sul rigore di questi concetti si basa la solidità dell’intero modello gestionale che essi sottendono.
Quando si vuole rendere la “cultura” di un azienda oggetto di progettualità mirata, il manager non può fare riferimento ad una definizione da dizionario, ad una frase elegante: deve disporre di un modello mentale completo dei fattori che condizionano scelte e comportamenti, per poter rendere ciascuno di essi una leva concretamente “azionabile” nella gestione del cambiamento.
Sono solo dettagli?
Se analizziamo l’operatività di una qualunque azienda in ottica LEAN, vedremo che gli spechi associati alla comunicazione ed all’interpretazione dell’informazione crescono esponenzialmente. Riunioni e call conference continue, abuso di mail e presentazioni, errori, rilavorazioni e contrasti dovuti a incomprensioni, sono sofferenze sempre più frequenti, diffuse. Analizzando le singole situazioni, si vede che l’imprecisione nell’uso delle parole, la scarsa qualità della comunicazione che ne deriva, hanno un loro peso.
Ma non è questo l’aspetto più critico. La mancanza di un linguaggio adeguato rende approssimativo il modo con cui l’azienda configura ed applica le proprie politiche ed i propri processi, introducendo margini di interpretazione là dove non ve ne deve essere alcuno. E’ il problema dell’ontologia aziendale (tema su cui mi trovai a lavorare proprio in IBM, molti anni dopo quel convegno sul linguaggio): non disporre di parole capaci di referenziare in modo chiaro e preciso tutti gli aspetti del business, dalla definizione di Cliente alle scelte organizzative e metodologiche interne, significa non averne completo controllo. Questo causa diseconomie sistemiche, e qualche volta anche disastri eclatanti (difficile non pensare all’analisi di Feynman sul Challenger).
Cosa è cambiato rispetto a prima? C’era maggiore precisione semantica in passato?
No. Più semplicemente ci si poteva permettere di lavorare con uno strumento meno preciso, meno “affilato”.
Negli anni ‘90 gli analisti militari hanno coniato un acronimo efficace per descrivere l’evoluzione del contesto strategico e la necessità di nuove dottrine: VUCA (Variabile, Incerto, Complesso, Ambiguo). L’acronimo è più che attuale e pienamente trasferibile al contesto di business: l’economia Digitale crea indubbiamente sempre più condizioni di questo tipo per le aziende.
In passato il problema semantico si poneva in modo molto meno critico: minore complessità interna ed esterna e dinamiche evolutive più lente, comportavano per l’azienda cambiamenti più graduali nel tempo o trasformazioni drastiche ma sporadiche. Il linguaggio condiviso aveva il tempo di adattarsi, il buon senso era sufficiente per desumere i significati corretti dal contesto, correggere il messaggio, assicurare la comprensione.
In un mondo VUCA questi spazi, queste tolleranze non ci sono più. Frequenza di iterazione, compressione dei tempi, organizzazioni aperte/distribuite, interazione remota, multidisciplinarietà, cambiamento continuo rendono necessaria un efficacia ed un efficienza di interazione informativa molto più elevate. L’azienda ora deve essere un “motore” più sofisticato, più performante, i suoi componenti perfettamente definiti ed orchestrati. La qualità della comunicazione operativa deve essere tanto importante quanto quella istituzionale e di marketing. E non solo: nell’epoca Digitale non disporre di un ontologia precisa significa anche ridurre la qualità della specifica, riducendo la “robustezza” delle soluzioni a supporto, incorporando incongruenze nelle funzionalità e nel capitale informativo delle proprie basi dati.
Come agire su questa criticità, concretamente?
Non c’è una risposta semplice. Qualità, rigore e integrazione nell’analisi di business, nello sviluppo della formazione, nel disegno organizzativo e di processo, nella gestione della conoscenza, nel governo dei centri di competenza: sono tutti elementi che concorrono a costruire un modello comune del dominio in cui si opera, e la coerenza e completezza del “dizionario” a cui l’organizzazione fa riferimento. Dal lato dello sviluppo delle soluzioni informatiche e Digitali, , “business architecture” e “domain driven design”, “data management” sono alcuni dei temi che ne indirizzano proprio gli aspetti semantici ed ontologici.
Certamente il punto di partenza è prendere piena consapevolezza che, in un organizzazione sempre più fluida, agile, in cui tutto si riconfigura e si trasforma rapidamente, l’unico punto davvero fermo rimane la chiarezza delle idee e dei concetti che guidano la visione di business e la sua realizzazione, fino nei dettagli.
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