Come nascono i pregiudizi di genere? E come possiamo contrastarli? Il primo passo è riconoscere la loro esistenza. Il gender bias, per dirla all’inglese, esiste all’interno di svariate dimensioni: quella individuale e psicologica così come quella sociale e culturale. Ha riflessi concreti nel mondo dell’istruzione e del lavoro. Affonda nei millenni della storia dell’essere umano, forse, ma senza andare tanto indietro nel tempo possiamo accorgerci di come nell’era contemporanea il bias di genere abbia trovato rispecchiamento e terreno fertile nella sfera mediatica, dalla televisione ai rotocalchi, dal cinema ai social network (diventati ormai dei canali di comunicazione di massa a tutti gli effetti). Ma proprio in questi luoghi, e specie sui social, i pregiudizi possono essere confutati e combattuti.
Decisamente, è il momento di superarli. Già nel 1859 l’ironico autore britannico Wilkie Collins dipinse, nel romanzo La donna in bianco, i ritratti di due sorelle antitetiche ma entrambe affascinanti: Laura, creatura eterea, fragile, pittrice e musicista innamorata dell’arte e dell’amore, destinata a diventare moglie e madre; e Marian, energica, arguta, coraggiosa, un trionfo di pensiero logico, destinata alla libertà. Forzando un po’ la mano, potremmo considerarle simbolo di due modi di essere donna, di due inclinazioni (l’una più umanistica, l’altra più scientifica) che convivono all’interno dell’universo femminile e spesso anche all’interno della stessa persona.
Se a metà dell’Ottocento qualcuno ci era arrivato, fa un certo effetto leggere ancora nel 2021 affermazioni (come quelle fatte dal leghista Simone Pillon) secondo cui “è naturale che i maschi siano più appassionati a discipline tecniche, tipo ingegneria mineraria per esempio, mentre le femmine abbiano una maggiore propensione per materie legate all’accudimento, come per esempio ostetricia”. L’affermazione si innestava sulla critica di Pillon all’Università di Bari, che per l’anno accademico 2021/22 ha deciso di scontare la retta d’iscrizione alle studentesse (con Isee inferiore ai 30.000 euro) indirizzate su corsi di laurea in cui le donne scarseggiano.
Possiamo discutere sul fatto che quella delle “quota rosa” sia la migliore logica possibile o semplicemente una misura correttiva che non affronta il problema alla radice. In ogni caso affermazioni di questo tipo dovrebbero far rizzare i capelli a tutti, e non solo alle donne. Pillon dimentica non soltanto la lunga lista di scienziate premio Nobel per la chimica, per la fisica e per la medicina, o gli straordinari successi di Samantha Cristoforetti, prima donna europea a guidare la stazione spaziale internazionale. Dimentica anche, o non sa, che a elaborare importanti teorie sull’accudimento e sul legame madre-bambino sono stati pensatori uomini, come il pediatra e psicoanalista Donald Winnicott e il medico e psicologo John Bowlby.
L’inclinazione “naturale” non esiste
A proposito di psicologia, c’è un altro problema connesso all’idea che uomini e donne abbiano inclinazione “naturali”, predeterminate dai cromosomi X e Y. La psicologia, la psicoanalisi e le neuroscienze da tempo hanno messo da parte l’innatismo (lasciando semmai questo concetto alla filosofia) in favore di teorie dello sviluppo che considerano come apprese dall’esperienza anche le inclinazioni che un tempo avremmo definito come “naturali”. Dovremmo usare con le pinze tale termine o usarlo nella consapevolezza che anche una “naturale inclinazione” sia in realtà frutto dell’esperienza, dell’ambiente familiare, amicale, scolastico, sociale e culturale in cui si cresce. Addirittura, ancor prima, l’ambiente dell’utero materno, con le sue dinamiche fisiologiche e con il continuo dialogo corporeo ed emotivo tra madre e figlio, può gettare le basi delle future modalità di relazione del nascituro.
La scelta del percorso di studi, per le donne così come per gli uomini, non è libera da condizionamenti. Gli stereotipi di genere si costruiscono fin dalla prima infanzia, negli ambienti scolastici, fino a diventare tanto potenti da orientare i percorsi di studio e di carriera. Secondo i dati dell’Unesco riferiti al biennio 2014-2016, nelle scuole superiori e nelle università solo tre donne su dieci scelgono un percorso di studio Stem, sebbene con differenze geografiche e variabili legate alle singole materie. Sono meno portate per questo tipo di studi? Guardando ai dati della Commissione Europea, sembrerebbe piuttosto esistere un divario fra meriti e riconoscimento, fra i traguardi raggiunti in curriculum e i risultati di carriera. Nel 2018, nei 28 Paesi Ue, le donne rappresentavano il 37% dei dottorandi e il 39% di chi in quell’anno ha ottenuto un dottorato di ricerca, ma solo il 15% degli occupati in ruoli accademici di massimo livello.
Sempre l’Unesco sottolineava, in un report del 2017, che le studentesse tendono a perdere interesse nelle discipline Stem tra la pubertà e l’adolescenza, mentre nella scuola primaria la preferenza per l’universo umanistico è meno marcata. Un segnale, se ancora ce ne fosse bisogno, di come molte scelte siano dettate dall’ambiente e da schemi mentali costruiti nel tempo, più che da una presunta “inclinazione naturale”.
Il pregiudizi inconsci
In un webinar dell’ultima edizione di “Stem in the city”, annuale iniziativa del Comune di Milano, Laura De Chiara, coach ed esperta di sviluppo del potenziale e orientamento di carriera, ha ben spiegato il potere dei pregiudizi: “Più del 50% dei ragazzi fra i 13 i 17 anni inizia a pensare al loro futuro non ragionando sui talenti che credono di possedere, ma su quelli che qualcuno, genitori o insegnanti, ha detto loro di avere”. A volte si basano su esempi culturali che inconsapevolmente hanno incamerato”. Hanno, cioè, dei pregiudizi inconsci che condizionano le loro scelte.
I pregiudizi inconsci non sono una colpa: tutti li abbiamo, anche se crediamo di esserne esenti. Lo possiamo cogliere con un gioco (illustrato passo passo da De Chiara durante il webinar): chiudiamo gli occhi e immaginiamo di salire a bordo di un aereo per raggiungere la città che ospita una convention di tecnologia a cui dobbiamo partecipare. Prima della partenza il capitano dell’aereo esce dalla cabina per augurare buon viaggio ai passeggeri; di fianco a noi, una coppia brinda al proprio anniversario di fidanzamento guardandosi negli occhi; una volta a destinazione, dopo una notte in albergo, la mattina assistiamo all’inaugurazione della convention con il discorso di apertura affidato alla persona che ha fondato la nostra startup preferita.
Apriamo gli occhi e chiediamoci se abbiamo immaginato il capitano della cabina come una persona di colore, la coppia che festeggiava l’anniversario come una coppia omosessuale, la persona che ha fondato la startup come un’imprenditrice donna. Se la risposta a queste domande è no, non dobbiamo sentirci a disagio: il nostro cervello più facilmente riesce a immaginare ciò che gli è familiare e che considera più probabile. Questo è, in sintesi, il bias cognitivo, meccanismo intrinsecamente connesso al modo in cui funzionano la memoria e l’apprendimento, cioè con un continuo confronto fra ciò che già conosciamo e che di nuovo stiamo osservando, vivendo, imparando. Essere consapevoli di questi schemi mentali è un primo passo per riuscire a scalfire i pregiudizi inconsci. Dobbiamo capire che il cervello a volte può ingannarsi, come ben dimostrano le illusioni ottiche studiate dalla psicologia della Gestalt più di un secolo fa.
Combattere i pregiudizi di genere
Oggi sul tema dei pregiudizi di genere esiste una letteratura ed esiste anche un chiaro interesse di massa. Digitando “gender bias” su Google si ottengono 6,17 milioni di risultati, e togliendo le virgolette dalla query si arriva a 189 milioni. Informarsi e fare debunking è forse il primo strumento di lotta ai pregiudizi, e grazie al Web una marea di nozioni (da filtrare con criterio) è fortunatamente disponibile su scala planetaria. Molto possono fare, poi, le iniziative tese a far comprendere alle giovani donne le loro potenzialità, a incoraggiarle a osare anche nei territori della scienza e dell’informatica.
Una delle più note è Girls Who Code, ispirata ai principi di coraggio (essere tenaci e coraggiose), attivismo (diretto coinvolgimento e proselitismo sul tema) e sorellanza (solidarietà e aiuto reciproco tra donne). Nata nel 2021, l’organizzazione senza scopo di lucro da allora ha coinvolto oltre 500 milioni di persone in giornate di formazione e orientamento, campi estivi, utilizzo di strumenti Web per imparare i principi della programmazione e in altre attività, online e offline. Aziende come Apple, Amazon, Accenture, Dell, Deloitte, Microsoft, Sap e decine di altre grandi società sono partner del progetto.
Altra iniziativa di successo è Inspiringirls, nata a Londra nel 2013 da un’idea dell’avvocatessa Miriam Gonzàlez Duràntez. Oggi è attiva in 17 Paesi, fra cui l’Italia (dove è promosso dall’associazione Valore D, con il supporto di Eni, Intesa Sanpaolo e Snam). Nei primi tre anni del progetto, in Italia sono stati coinvolti più di 32mila studenti (uomini e donne) di 400 scuole medie e centinaia di “role model”, che hanno portato la loro testimonianza, parlando di carriera e vita privata e del difficile bilanciamento fra le due sfere. L’obiettivo è quello di aiutare le ragazze a sviluppare consapevolezza dei propri talenti, liberandole dagli stereotipi di genere che possono frenare le loro ambizioni e passioni.
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