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Oibò, si è ristretta Internet? Economia digitale e giganti del web sempre più ingombranti

N.  Ottobre 2017
        

a cura di Ezio Viola 
Managing Director, The Innovation Group 

 

Trent’anni fa internet non esisteva e fino agli inizi degli anni 90’ del secolo quasi nessuno usava internet per fare qualcosa. Oggi quasi tutti la utilizzano per fare molte cose : anche se il web è molto cresciuto possiamo però dire che si è “ristretto”?

Google, ad esempio, ora controlla quali il 90% del mercato del “search advertising”, Facebook quasi l’80% del traffico mobile sui social e Amazon circa il 70% delle vendite di e-book e il 50% delle vendite on-line in USA. Qualcuno anche in USA  incomincia a pensare che la loro posizione sia sostanzialmente di tipo monopolistico. Nei loro bilanci questi  “moderni monopolisti” sembrano anche più potenti dei vecchi che miravano in settori limitati ad un singolo servizio o prodotto e che ora sarebbero invidiosi dei risultati raggiunti dai vari Zuckerberg e Bezos.

 

In un recente libro (J. Taplin : “Move fast and break things: how Facebook, Google and Amazon Cornered culture and undermined monopoly”), ma non l’unica pubblicazione apparsa in USA negli ultimi 12-18 mesi, si argomenta approfonditamente dei danni diretti o collaterali che i giganti del web hanno già provocato o potrebbero provocare. Ad esempio Google diede un colpo quasi mortale al business della musica quando nel 2006 acquisì YouTube, piattaforma dove si può trovare qualsiasi brano musicale, anche postato direttamente dagli utenti.

 

La legislazione sul copyright della musica proposta al Congresso americano nel 2012 fu facilmente boicottata dalla rivolta del web contro qualsiasi “censura”, promossa da Google stessa.

Google è nell’industria dei motori di ricerca e il suo business model è “quello di estrarre il maggior numero di informazioni possibili dalla maggior parte delle persone al mondo al minor prezzo possibile e rivendere i dati al maggior numero di aziende al più alto prezzo possibile”.

Non molto diverso è quanto fa Facebook su chi usa i social media e le varie altre applicazioni come Whatsapp. Google, Amazon, Facebook e Apple i famosi GAFA, come spesso vengono chiamati in Europa, sono diventati di fatto i “guardiani” di internet. Inoltre sono riusciti a capitalizzare sui contenuti prodotti da altri mettendo in crisi il settore dei media e delle news. Il web è stato progettato per dare alle persone liberamente quello che esse vogliono, l’economia si sta digitalizzando, basta pensare all’ingresso sempre più attuale dei giganti di Internet nell’industria automobilistica. Il rischio è di ritrovarci come in Europa in molti settori strategici in una posizione marginale perché i protagonisti del nuovo mondo sono tutti americani e in prospettiva anche cinesi.

Rispetto alle altre multinazionali americane del mondo non digitale, i giganti della rete tendono a fare più vendite e profitti fuori dagli Stati Uniti ma a pagare molto meno tasse in Europa. Basta del resto vedere i numeri dei bilanci ufficiali: le prime cinque imprese digitali per capitalizzazione (Amazon, Google, Apple, Microsoft e Facebook) sono contemporaneamente anche le cinque più grandi imprese del mondo per valore di borsa.

 

In questo scenario incominciano ad alzarsi voci verso il Governo Federale di regolamentare il settore e al limite di trattare aziende come Google e Facebook come monopolisti e regolarle così come successe negli anni ottanta con l’AT&T nel settore delle telecomunicazioni: “costringere” ad esempio Google a licenziare le sue migliaia di brevetti, in molti campi non solo quelli degli algoritmi per la ricerca, ma anche quelli del  sistema operativo Android, attraverso un intervento dell’Antitrust ai diversi colossi del web è forse impraticabile; Il loro modello di business è infatti basato su una “piattaforma tecnologica” che è complessa da “dividere e separare” : un approccio possibile potrebbe essere  quello di liberalizzare i loro dataset e renderli disponibili a tutti.

 

 

In Europa questa politica di limitare la posizione dominante sembra già essere presente presso i policy maker e le istituzioni comunitarie e questo sta attirando anche le critiche delle associazioni americane e anche di parte del governo.

 

La  recente multa di 2.7 miliardi inflitta a Google dalla Commissione Europea così come quella per evasione fiscale ad Apple ne sono un segnale significativo così come la recente proposta  di introdurre una Web Tax.

 

In tre anni infatti sono “spariti” ricavi per 54 miliardi di euro che, calcolati sull’aliquota media pagata da Google fuori dalla Ue, significano la volatilizzazione di 5 miliardi di euro di tasse di imposta.

 

Quanto a Facebook  fuori dall’Unione europea paga tra il 28 e il 34% sui ricavi, mentre in Europa  oscilla tra lo 0,03% e lo 0,10 per cento. L’opzione di tassa digitale presentata per iniziativa dei G4  è legata al traffico digitale vero e proprio ed è calcolata sull’imposizione dei ricavi, non dei profitti. Ci sono anche altri schemi analizzati basati sul concetto di «piattaforme digitali» che prevedono che la tassa scatti al superamento di 5 milioni di euro di giro d’affari. La proposta solleva un problema strategico e cioè la questione di quale possa essere il ruolo degli Stati Nazionali e delle Organizzazione internazionali, pensati per governare società industriali, in un contesto nel quale  persino le catene di montaggio scompaiono, quelle del valore e le supply chain si digitalizzano e  i confini tra settori industriali si ricompongono.

Le prime cinque imprese digitali per capitalizzazione realizzano il 60% delle vendite e dei prodotti fuori dagli Stati Uniti, lasciandovi solo il 10% delle tasse pagate. Exxon, Johnson & Johnson e General Electric fanno metà del fatturato all’estero e all’estero pagano la metà delle tasse.

La distorsione è evidente se si continua ad avere come principio fondamentale dei sistemi di tassazione, quello di tassare i profitti prodotti nel territorio.  Le grandi imprese di Internet possono sostenere che il proprio prodotto sia sostanzialmente fabbricato nei laboratori dove si fa ricerca. Comunque è utile porre il problema ed ammettere che nessuno Stato nazionale può risolvere la questione da solo e che la risoluzione del problema passa per un ripensamento del concetto di tassazione basata sull’utile che verrebbe, progressivamente, sostituito da una fiscalità calcolata sul fatturato.

In un’economia digitale, persino il luogo della vendita diventa meno definito. Un contenuto digitale o anche una pubblicità può essere venduta in un Paese ma l’accesso a quel contenuto può avvenire dovunque ed essere replicato un numero infinite di volte. In realtà tassare ciò che attraversa i confini è possibile – per definizione – solo per un’istituzione che supera i confini nazionali anche perché, presto, persino l’Europa sarà piccola rispetto a fenomeni così globali. Occorre quindi dedicare risorse intellettuali, manageriali oltre che finanziarie importanti per governare le conseguenze per l’Europa e per il mondo, per l’economia e l’innovazione della straordinaria concentrazione di potere che le piattaforme digitali creano.

Che tipo di regolamentazione possiamo immaginare di fenomeni che non si interpretano più con le tradizionali metriche dell’economia o dell’antitrust è la sfida che abbiamo davanti; porsi il problema di correggere le distorsioni fiscali è un’azione corretta ma non è sufficiente.

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