N. Settembre 2020
a cura di Emilio Mango
Direttore, Technopolis
Durante la pandemia il Pmi (Purchasing Manager’s Index) di Eurolandia ha toccato un minimo di 33,4 (l’indice si considera positivo, cioè indica una crescita del mercato degli acquisti, quando è superiore a 50) a maggio, mentre prima dell’arrivo del Covid-19 “viaggiava” tra 52 e 60.
A fine agosto, inaspettatamente, è tornato a toccare i 52 punti, segno, almeno nelle intenzioni dei direttori acquisti delle aziende europee, che ci sarebbe una timida fiducia nella ripresa. L’indice Pmi fornisce un’indicazione interessante sullo stato di salute del comparto manifatturiero e sulla crescita della produzione; gli operatori finanziari lo tengono in considerazione perché i responsabili degli acquisti di solito hanno un accesso privilegiato ai dati relativi alle prestazioni delle loro aziende, che possono diventare un indicatore chiave della prestazione economica nel suo insieme.
Cambiando ottica e analizzando la situazione da un punto di vista più qualitativo, si può dire che il settore manifatturiero sia stato colpito in modo molto diverso da altri comparti. Alcuni (trasporti, turismo, ristorazione) a causa della pandemia sono stati investiti da un vero e proprio tzunami. Il manifatturiero ha subito invece un contraccolpo più complesso da analizzare, in alcuni casi simile al maremoto (pensiamo all’automotive o al fashion) in altri invece molto più sfumato (l’industria Ict, ad esempio, e alcuni segmenti direttamente coinvolti nella reazione all’emergenza, come la logistica, il medicale, l’alimentare o il tessile).
In più, il manifatturiero è caratterizzato da un ciclo di vita molto diverso da quello dell’erogazione dei servizi: c’è il mondo dell’indotto, della realizzazione di componenti e parti di prodotti più complessi, c’è il grande settore delle infrastrutture che ha tempi più lunghi rispetto ai cicli della pandemia. Insomma, alcuni imprenditori hanno dovuto “fermare le macchine”, altri hanno potuto continuare a ritmo serrato. La vera incognita è la “seconda ondata” non tanto del virus (che comunque incombe minacciosa, con ipotesi funeste di un eventuale secondo lock-down totale o parziale) quanto della crisi macro-economica conseguente a una contrazione di tutto il comparto economico-finanziario (i paventati licenziamenti di massa delle grandi compagnie multinazionali, il blocco del settore immobiliare, il cambiamento globale delle abitudini di acquisto e consumo).
C’è, infine, una considerazione di carattere più sociale che economico: le fabbriche, grandi o piccole, sono, rispetto agli ambienti d’ufficio, luoghi dove il “social distancing” è per molti versi più facile rispetto ad altre realtà, e dove le modalità di smart working, se possibile, sono ancora tutte da sperimentare.
Da una parte, la spesso indispensabile presenza fisica del personale pone un serio problema di pianificazione e tutela dei lavoratori (le macchine, invece, lo sappiamo, possono essere vulnerabili ai virus informatici ma non al Coronavirus), dall’altra potrebbe rilanciare le fabbriche come vero luogo di aggregazione sociale, un ruolo che in alcune realtà più innovative (dal punto di vista della tecnologia ma anche dell’organizzazione del lavoro) è già una realtà.
Il ruolo della tecnologia
In questa auspicabile “reazione al Covid-19” del settore manifatturiero la tecnologia, e più in generale l’innovazione, giocano un ruolo importantissimo.
Tornando ai dati certi (il Pmi, citato in precedenza, è “solo” un indicatore), la sfida è da far tremare i polsi. Il Centro Studi Confindustria ha rilevato una diminuzione della produzione industriale del 33,8% in maggio (rispetto a maggio 2019) e del 44,3% in aprile. Gli ordini in volume sono invece diminuiti del 51,6% annuo (dato riferito a maggio). Premesso che tutti gli analisti sono concordi nel prevedere che, se non ci sarà un secondo lock-down, la ripresa sarà importante ma non riuscirà ovviamente a compensare lo stop dei mesi più bui, l’intensità della reazione dipenderà anche molto dalla volontà di manager e imprenditori di mettersi in gioco, con tecnologie e processi nuovi. Sotto questo profilo, come si usa dire spesso, la disgrazia del Covid-19 potrebbe essere vista come una grande opportunità di cambiamento (così come lo è già in parte stata in alcuni settori dei servizi, che hanno banalmente scoperto l’efficacia e il risparmio di un vero smart working).
Il cambiamento dovrebbe coinvolgere processi: una nuova organizzazione del lavoro, una diversa supply chain, con una differente collocazione (reshoring) dei fornitori per non dipendere troppo da aree geografiche troppo distanti e non controllabili in caso di pandemia, nuovi modelli di business e di go to market. Ma anche nuove tecnologie, come ad esempio i digital twin, l’Iot, la manutenzione predittiva, la manutenzione da remoto sfruttando la Augmented Reality, gli analytics e la manifattura additiva.
Un altro punto cardine di uno sviluppo in ottica smart manufacturing è la convergenza tra tecnologie It (Information Technology) e Ot (Operational Technology). Le prime portano in dote, ad esempio, una pratica più avanzata di trasmissione e trattamento dei dati e un’esperienza di cyber-sicurezza che ha già fatto i conti con una casistica purtroppo numerosa di attacchi e incidenti.
Insomma, la trasformazione digitale, che nel manifatturiero aveva fino all’arrivo del Coronavirus un altro passo e un’altra accezione rispetto agli ambienti d’ufficio, sarà determinante per costruire un nuovo modello di manifattura, quella costituita da fabbriche smart, più resiliente in tutti i sensi, quello della continuità della produzione ma anche quello del business.
Questo articolo è uscito anche sul numero di Settembre di Technopolis, periodico mensile edito da Indigo Communication Srl
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