N. Luglio 2020
a cura di Avv. Valentina Frediani
General Manager, Colin & Partners
Quante polemiche negli ultimi giorni sul tema dello smart working. Entrate “a gamba tesa” anche di natura politica, prima come se fosse la panacea di tutti i mali economici poi il nemico della psiche umana. Eppure chi sotto pandemia ha saputo organizzare in modo corretto lo smart working ha avuto una continuità produttiva importante andando a combinare in modo intelligente tecnologia, organizzazione e centralizzando l’interesse del lavoratore. Ma solo in quella realtà dove si è effettivamente svolto lo smart working! Sì perché quello che hanno svolto gran parte degli italiani non si può definire tale.
Per smart working si intende lavoro agile e vi è una normativa specifica che lo disciplina: la legge n. 81/2017, che pone all’art. 18 lo smart working come modalità di esecuzione del lavoro di natura subordinata, istituita allo scopo di incrementare la competitività ed agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, da attuarsi con forme di organizzazione per fasi, cicli ed obiettivi senza precisi vincoli di orario o luoghi di lavoro. Ma il DPCM dell’8 marzo 2020 poi replicato nei contenuti nei giorni successivi all’emergenza, ha promosso un “lavorate da casa ” che poco ha avuto a che fare con il lavoro agile. Quindi, chi si basa per valutare il valore aggiunto dello smart working solo sull’esperienza vissuta in questi mesi, in gran parte dei casi sta prendendo in considerazione un “non smart working” ma un “remote working”, che è ben altra cosa…
Il lavoro agile ha come nucleo logico l’obiettivo, e prevede pertanto una organizzazione a monte di ciò che deve essere fatto ed entro quando si deve portare a terra. Molte aziende si sono erroneamente concentrate su aspetti di controllo dei lavoratori temendo uno “spreco” temporale da parte dei dipendenti: e questo è stato il grande equivoco. Il controllo da remoto dello smart worker oltre ad essere impensabile sotto il profilo della violazione dello Statuto dei Lavoratori, è quasi una contraddizione in termini logici. Come datore di lavoro dati gli obiettivi, controllo i risultati, il resto non mi deve interessare. Ciò che posso correttamente adottare per rientrare nell’alveo di legittimità dettata dall’art. 4 del richiamato Statuto, sono solo gli strumenti dei quali – pur derivando anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori – non si può fare a meno per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale. Il potere di controllo datoriale nell’ambito del rapporto di smart working avviene con riferimento alle condotte connesse all’esecuzione della prestazione lavorativa all’esterno dei locali aziendali; qualora vengano violate le prescrizioni inserite nell’accordo per il lavoro agile – presupposto essenziale – possono essere applicate sanzioni disciplinari. Tale accordo è “saltato” con la pandemia, disponendo il DPCM sopra richiamato che si potessero applicare la modalità di lavoro agile, per la durata dello stato di emergenza di cui alla deliberazione del Consiglio dei ministri 31 gennaio 2020, a ogni rapporto di lavoro subordinato, nel rispetto dei principi dettati dalle menzionate disposizioni, anche in assenza degli accordi individuali previsti. Occorre pertanto tenere presente che tornando ad un regime ordinario, e quindi uscendo dall’emergenza sancita originariamente sino al 31 luglio 2020, qualora aziende ed enti volessero mantenere il lavoro agile dovrebbero comunque accordarsi con i dipendenti. E non dimentichiamo che oltre all’accordo saranno necessarie regole disciplinanti sia l’utilizzo della strumentazione informatica rilasciata in dotazione, che la disciplina circa la gestione della riservatezza di dati ed informazioni. Mentre il primo tema è oggi piuttosto regolamentato nelle strutture private e pubbliche italiane – anche se non sempre nei termini giusti – sul secondo si assiste a carenze molto forti in particolare nel settore privato. Ci sono poche attenzioni sui rischi che le informazioni gestite fuori dal perimetro aziendale potrebbero subire. Sia per un tema di “distrazione psicologica” naturale – lavorare in ambienti non prettamente lavorativi crea confusione talvolta su cosa ci circonda ed abbassa l’attenzione alla protezione – sia per una fisiologica minor protezione fisica dovuta in particolare alla commistione con la quotidianità personale: l’uso della rete da parte dei figli, la condivisione di piano di lavoro con amici o partners … insomma tutta una serie di abitudini di vita che possono incidere sulla riservatezza delle informazioni aziendali.
Pertanto in un’ottica di buon sviluppo del lavoro agile, incidere con formazione e regolamentazione sul questo aspetto è essenziale: quando tutto si trasforma occorre educarsi ed educare alla trasformazione non dando per scontato niente, in particolare in un momento sociale in cui la pressione alla produttività ed al contenimento dei costi rischia di sacrificare una riflessione ponderata di come introdurre, mantenere e mettere a forte rendimento il tema del lavoro agile. Ma adottate le prescrizioni giuridiche e le tutele opportune sarà difficile tornare indietro: è notizia di questi giorni la scelta di Microsoft di chiudere i negozi e puntare sull’online; questo passaggio non può che farci riflettere su quanto la situazione stia cambiando e come sia intelligente “lavorare” per trarre proficuità da questi cambiamenti.
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