Ripensare alle competenze e imparare a “conoscere il nemico”, per portarlo dalla nostra parte. Una strategia possibile per il mondo del lavoro.
L’intelligenza artificiale generativa corre veloce, sia per quanto riguarda le sperimentazioni di sviluppatori e società vendor, sia per i continui ampliamenti di offerta (nuove funzionalità all’interno di software aziendali o nuovi servizi cloud per il training o l’affinamento di algoritmi) e per il numero di aziende che la adottano. I due fronti degli entusiasti e degli scettici o preoccupati sono già schierati, in un dibattito che da ormai circa un anno si dispiega tra ricerche di mercato, comunicati stampa, opinioni di analisti e discussioni da bar (o da social network).
L’impressione di molti è che siamo appena all’inizio di una rivoluzione irreversibile. Bloomberg prevede che il valore dei software e servizi di genAI esploderà nel corso di un decennio, dai 40 miliardi di dollari del 2022 ai 1.300 miliardi stimati per il 2032. Ma oggi sull’AI generativa, o genAI come qualcuno l’ha ribattezzata, pendono ancora molti punti interrogativi, troppi per riassumerli in un breve articolo. Può diventare un’arma per la disinformazione o per gli attacchi informatici? Cancellerà i confini tra vero, verosimile e falso? Alimenterà pregiudizi e discriminazioni?
La domanda forse più importante per una larga fetta della società riguarda il rapporto fra genAI e occupazione. Con le sue capacità di automazione evoluta e di creazione di contenuti (testi di ogni genere, ma anche immagini simil-fotografiche, opere artistiche, canzoni e chissà che altro in futuro), è assai probabile che questa tecnologia possa sostituire le persone in diverse attività di lavoro quotidiane più o meno tediose o creative. Per i vendor di tecnologia questo sarà un bene: le persone in azienda potranno focalizzarsi su attività a valore aggiunto, intellettualmente più stimolanti della scrittura di un’email, della ricerca di informazioni in un database o della costruzione di una presentazione Power Point. I datori di lavoro raccoglieranno i benefici degli incrementi di produttività ed efficienza. A seconda del punto di vista, però, il quadro cambia.
Uno studio di Goldman Sachs, pubblicato lo scorso aprile, stima che in un orizzonte di medio periodo l’AI generativa potrebbe spazzar via circa 300 milioni di posti di lavoro (equivalente a tempo pieno), ovvero il 18% degli attuali occupati. Nelle professioni amministrative verrà automatizzato il 46% delle attività, in quelle di ambito legale il 44%, nell’architettura e nell’ingegneria il 37%, mentre sarà più trascurabile l’effetto su professioni che comportano una manualità non standardizzata, come quelle artigiane. L’impatto dell’AI generativa sull’occupazione sarà quindi negativo almeno nel breve o medio termine, ma comunque non troppo diverso da quello di altre tecnologie informatiche che hanno segnato la storia contemporanea, come i computer e Internet. Tecnologie di cui oggi non potremmo più fare a meno e che non vengono generalmente considerate come forze distruttive sull’occupazione.
C’è anche chi, come McKinsey, vede le due facce della medaglia, parlando di una necessità di “transizione” dei lavoratori su nuove attività. Le aziende dovranno farsi carico del problema, aiutando i dipendenti con corsi di formazione affinché sviluppino nuove competenze, e inoltre dovranno “mitigare e controllare” i rischi connessi all’intelligenza artificiale. Se tutto questo sarà gestito correttamente, l’AI generativa potrà “contribuire in modo sostanziale alla crescita economica”, scrive McKinsey.
Il tema, ammettiamolo, è ancora controverso e oggi si possono solo fare delle proiezioni. Secondo Ibm, per esempio, il 40% dei dipendenti d’azienda dovrà trovare modi per riqualificarsi da qui a tre anni per mantenere rilevanza di fronte ai progressi dell’AI (il dato è derivato da un’analisi condotta su 3.000 dirigenti di 28 nazioni e 21.000 dipendenti di 22 Paesi). “L’AI non sostituirà le persone, ma le persone che usano l’AI rimpiazzeranno quelle che non la usano”, si legge nel report. Insomma, per non perdere opportunità di carriera sarà cruciale restare aggiornati con gli sviluppi dell’informatica, più di quanto non lo sia stato negli ultimi quarant’anni.
Ma che cosa significa imparare a usare l’AI generativa? Come prima cosa significa familiarizzare con un’interfaccia, con i suoi comandi e funzionalità, insomma capire che cosa si possa fare con una data applicazione e come farlo. Questo è però solo il livello di comprensione iniziale e quello più banale: i large language model capiscono il linguaggio naturale e compiono da sé gran parte dello sforzo di comunicazione nel rapporto uomo-macchina. Alle persone e alle aziende sarà semmai richiesto un altro sforzo, quello di restare al passo con le evoluzioni dell’offerta per saper riconoscere le differenze tra una soluzione e l’altra, specie in termini di trattamento dei dati. In terzo luogo, non ci basterà sapere usare un’applicazione come ChatGPT o Bard ma dovremo imparare a usarla bene e responsabilmente, per esempio delimitando il confine tra ciò che possiamo delegare al software e ciò che è meglio continuare a fare nel modo “tradizionale”, con la sola creatività e intelligenza umana. In futuro l’AI generativa sarà per qualcuno il migliore alleato per la produttività, per altri un nemico da conoscere per imparare a contrastarlo. In ogni caso, dai Baby Boomer alla Gen Z, nessuno di noi potrà ignorarne l’esistenza.
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