N. Ottobre 2017
a cura di Eleonora Porazzi
Junior Analyst, The Innovation Group
Nel mezzo di quella che viene comunemente chiamata “la Digital Age”, le nuove e dirompenti tecnologie digitali possono venire considerate – espandendo il paragone proposto da Clegg e altri (2005) secondo cui l’e-commerce rappresenta per l’azienda “un polipo con tentacoli” che raggiungono e modificano ogni segmento della ‘value chain’ dell’azienda in questione – come tentacoli che vanno ad impattare anche l’intero ecosistema all’interno del quale l’azienda è inserita, includendo anche settori considerati tradizionali.
Le banche, capisaldi della nostra società sin da tempi antichi, non sono rimaste immuni da questi cambiamenti. Come già discusso nella newsletter precedente, forte attenzione è infatti riposta verso il mondo delle Fintech, un termine che sta ad indicare l’insieme di tecnologie che supportano l’erogazione di servizi finanziari rendendoli più efficienti e con un bacino di utenza più ampio. I dati confermano la crescita esponenziale di questo fenomeno che ha generato grande fermento nel rigido e conservatore mondo finanziario. Infatti, secondo i numeri forniti da un sondaggio svolto da White & Case (2016), il 70% degli executives intervistati considera le fintech come fattori molto importanti nello sviluppo e management della corporate strategy aziendale.
Seppur vengano considerate da molti come una minaccia, capaci di togliere il primato alle banche sulla base di tecnologie che, comunque, se non propriamente utilizzate, possono minare aspetti come la sicurezza e la privacy, altri ne esaltano i lati positivi, come la cosiddetta ‘financial inclusion’, ovvero la possibilità di garantire l’accesso a risorse finanziari anche a quella fetta della popolazione rimasta fino ad ora esclusa (si pensi per esempio ai paesi in via di sviluppo).
Di fronte all’avanzare delle fintech, le banche hanno reagito in vario modo. Tra i differenti tipi di reazione, quello che più si profila come capace di trarre i maggiori benefici da questa ‘lotta’ è quello recentemente adottato da diverse banche sia internazionali che italiane: quello cioè delle acquisizioni (M&As), investimenti, e partnership strategiche, che rappresentano la maggioranza con il 60%, secondo il report 2017 di CapGemini – il tutto denominato ‘Fintegration’.
Questa politica consiste in un approccio di complementarietà in contrasto ad uno di opposizione e concorrenza, ed è in linea con fenomeni di più ampio respiro che stanno prendendo sempre più piede nel mondo del business, quali il fenomeno di Open Innovation e l’emergere di ecosistemi generati delle piattaforme digitali. Questa scelta di collaborazione viene intrapresa alla luce di alcuni ‘findings’: per esempio, come riportato sul report del Word Economic Forum di Agosto 2017, nonostante i molteplici tentativi, il numero di clienti che ha effettuato la migrazione dal tradizionale conto di deposito all’online banking è ben al di sotto delle aspettative. Infatti, i canali tradizionali e alcuni degli aspetti ‘fisici’ delle banche riescono ancora (e assai probabilmente riusciranno anche in futuro) ad avere una grande valenza per i consumatori. Tuttavia, allo stesso modo, le fintech garantiscono servizi più flessibili, sono al passo con gli avanzamenti tecnologici del mercato e spesso sono gli attori che maggiormente definiscono le aspettative dei consumatori (soprattutto dei più giovani) sulla ‘banking experience’.
Nel panorama italiano, dati incoraggianti sono emersi sull’argomento. Infatti, uno studio condotto dal CeTIF, centro di ricerca su tecnologie, innovazione e servizi finanziari nato nel 1990 presso l’Università Cattolica di Milano, rivela che il 50% delle fintech osservate ha già avviato qualche forma di collaborazione con le istituzioni finanziarie tradizionali. Un esempio importante di questo approccio sinergetico è quello adottato da Intesa San Paolo, la quale ha creato Neva Finventures, una venture capital riservata alle startup fintech.In aggiunta, oltre ad aver grandemente affinato le proprie capacità di analisi ed integrazione dei dati e ad aver fondato il proprio corporate venture capital, Intesa San Paolo ha stretto una alleanza strategica con The Floor, un incubator israeliano di fintech radunante anche altre banche importanti quali Royal Bank of Scotland, Hsbc e Santander. Questa mossa ha portato la banca italiana ad essere annoverata tra le 7 banche mondiali più all’avanguardia in termini di trasformazione digitale, come evidenziato in un recente rapporto di Forrester Research. Un altro esempio è Unicredit, la quale ha anch’essa creato un fondo (chiamato ‘Evo’) per investire nel mondo Fintech, e collabora con una venture capital di Londra, Anthemis, per individuare le realtà più meritevoli di investimenti.
Esperti annunciano che il risultato della agitazione nello scenario del mondo finanziario sarà quello di un ecosistema del (digital) banking, dove nuovi partner e nuove opportunità di cooperazione trasformeranno necessità competitive in situazioni di win-win. Dunque, queste nuove forme di collaborazione tra banche tradizionali e fintech rappresenta non solo un bisogno dettato dalla necessita di sopperire alla carenza di determinate caratteristiche nell’uno o dell’altro, ma piuttosto costituiscono occasioni per creare sinergie e fornire al cliente una esperienza più completa.
Tuttavia, nonostante i segnali incoraggianti, l’Italia ma anche l’Europa in generale rimangono un passo indietro rispetto a Stati Uniti ed Asia per quanto riguarda le aspettative di crescita di questi fenomeni di collaborazione. Ciò è dovuto a diversi fattori tra cui, soprattutto, maggiori e più stringenti regolamenti per ottenere le licenze bancarie, i quali non devono però scoraggiare e fermare questi processi.
Infine, un ultimo aspetto da segnalare e da tenere in considerazione è legato agli effetti della PSD2, ovvero la nuova direttiva emanata ad Ottobre 2015 dal Parlamento Europeo e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale italiana ad Agosto 2016, che sembra aggiungere un altro, importante tassello al grande puzzle dell’Open Banking. Questo avvicinamento è dovuto al fatto che la PSD2 apre alla “deregulation bancaria” a favore delle fintech, in quanto abbassa i cosiddetti ‘entry requirements’ in termini di pagamenti digitali. Ciò avviene tramite l’obbligo, da parte delle banche, di fornire APIs (Application Program Interfaces, ovvero l’ interfaccia di programmazione di un’applicazione) a terze parti, creando così un mercato più aperto e potenzialmente più competitivo, dove anche le nuove realtà potranno offrire servizi di pagamento sicuri e affidabili.
Alla luce di quanto emerso da queste considerazioni, si può ribadire che le attività di cooperazione tra banche e fintech rappresentano non solo una necessità competitiva nata dallo sviluppo tecnologico, ma soprattutto delle occasioni di creazione di un solido vantaggio competitivo.
Fonte: White & Case (2016)
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