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Inseguendo l’innovazione e le competenze che oggi mancano

 

Competenze, sempre e ovunque. In qualsiasi discorso, dibattito o ricerca in cui si parli delle aziende italiane, delle sfide che affrontano (di trasformazione digitale, ma non solo), questo tema è onnipresente. E lo stesso dicasi, anzi forse ancor di più, della Pubblica Amministrazione, oggi impegnata in un quasi obbligato percorso di trasformazione digitale. Spesso mancano le competenze giuste, quelle che possono proiettare l’azienda o l’ente pubblico verso il futuro. Inparticolare, è difficile trovare, o coltivare internamente, personale esperto in aree dell’informatica come la cybersicurezza, la scienza dei dati e l’intelligenza artificiale, o anche la semplice programmazione (arte un po’ trascurata nelle aziende nel recente passato, per via di un massiccio ricorso all’outsourcing, ma oggi si nota un’inversione di tendenza).

Da un sondaggio condotto da Cefriel e Tig Events sui partecipanti al recente Cio Leaders Summit di Baveno, emerge uno scenario critico. In base al sondaggio, più del 50% dei Chief Information Officer non è soddisfatto degli attuali percorsi di upskilling (potenziamento delle competenze già possedute) e reskilling (formazione di nuovi saperi e abilità) della propria azienda. Dal confronto tra i Cio e i responsabili delle risorse umane presenti al summit è emersa l’esistenza di uno scollamento tra le priorità dei team IT e i piani di formazione previsti dalle HR.

Magari la volontà e gli obiettivi di cambiamento sono allineati, ma c’è uno scollamento di modi e tempi fra le strategie dei due reparti. In sostanza, la funzione HR spesso fatica a star dietro all’IT, perché la strategia aziendale o le tecnologie cambiano troppo rapidamente rispetto alla capacità di assumere nuovo personale o di far evolvere le competenze dell’organico. I Cio sottolineano che è sempre più importante riuscire a trasmettere la cultura della digitalizzazione a tutti, sia alle figure operative sia ai top manager, per preparare il terreno alle innovazioni.

C’è poi il tema delle nuove assunzioni e della “retention dei talenti”, per usare un’espressione cara al lessico delle HR.  In uno scenario ancora segnato da un eccesso di domanda per certe aree professionali (specie cybersicurezza, programmazione, data science e AI), spesso gli stipendi e altri incentivi economici non sono leve sufficienti per aziende che devono contendersi i pochi “talenti” disponibili sul mercato del lavoro. Il gioco delle parti è ormai invertito in settori o ruoli come quelli informatici: sono i professionisti a scegliere le aziende e non viceversa. E soprattutto i giovani Millennials e Gen Z non si accontentano di far parte di una grande azienda o di una buona retribuzione, ma chiedono di conoscere fin da subito quale sarà il loro il percorso di carriera. Senza prospettive di crescita professionale, tendono a scappare. Inoltre, la possibilità di smart working, anche solo per parte della settimana lavorativa, è per molti una condizione minima necessaria per accettare un’offerta di lavoro.


Nuove competenze per l’AI
Se questo è lo scenario, italiano e non solo, delle professioni informatiche, allargando lo sguardo le dinamiche si ribaltano. Non sempre la domanda di lavoro è in eccesso rispetto all’offerta, anzi. E non sempre le aziende devono lottare per “trattenere i talenti”. L’intelligenza artificiale generativa viene vista da molti, a ragione o a torto, come una minaccia per l’occupazione, trasversalmente a numerosi ruoli professionali e settori. Gli studi e le previsioni sul tema si moltiplicano senza ancora trovare una sintesi, e naturalmente i vendor tecnologici (che sviluppano large language model, o li vendono, o integrano l’AI nelle proprie piattaforme) orientano il timone sull’ottimismo. A loro dire, l’intelligenza artificiale creerà nuova occupazione e trasformerà in meglio il lavoro, sostituendo le persone solo nei compiti tediosi (come ricerca di informazioni e aggiornamenti di database) o impossibili per l’uomo stesso (come gli analytics avanzati), non nel loro “valore aggiunto”.

Citiamo a mo’ di esempio uno studio realizzato da The European House – Ambrosetti per Microsoft Italia, in cui si valuta un notevole impatto positivo sul PIL e sulla produttività del sistema-Paese: +18% di incremento annuo, in uno scenario di adozione intensa della GenAI. O uno studio di Capgemini, secondo cui l’affermarsi dell’intelligenza artificiale nelle aziende contribuirà a creare nuovi profili professionali, per esempio esperti di etica dell’AI.

Un’opinione diversa è quella di Goldman Sachs, che un anno fa pronosticava la potenziale scomparsa di 300 milioni di posti di lavoro (il 18% della forza lavoro mondiale attuale) nel medio periodo a causa dell’intelligenza artificiale, con particolare impatto sulle professioni intellettuali. La stessa Goldman Sachs ammetteva però che l’AI darà una spinta alla produttività e stimolerà la domanda di nuove figure professionali su cui le aziende dovranno poter contare. Si torna qui al tema delle competenze: per maneggiare l’AI a tutti i livelli, nelle professioni Ict e in tutte le altre, l’aggiornamento continuo sarà d’obbligo. Mentre il sistema universitario italiano si attrezza per sfornare la prossima generazione di esperti di AI, tutte le precedenti generazioni di professionisti non possono permettersi di restare a guardare.

 

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