N. Novembre 2021
a cura della Redazione
The Innovation Group
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Della magistrale presentazione del Prof. Luciano Floridi al Digital Italy Summit di Roma, ci ha colpito soprattutto una slide. Raffigurava una torta con una ciliegina sopra. “Guardate – commentava Floridi – il digitale non è la ciliegina: il digitale è la torta!”
Molti capi di impresa sono ancora convinti che il digitale sia la ciliegina; molti ritengono di poter fare i conti con la transizione ecologica semplicemente con una spolverata di “green-washing”.
Molti insomma non avevano ancora capito la potenza della rivoluzione digitale, che è nel digitale che sta il profitto. A tutti questi il Digital Italy Summit ha riservato un repentino risveglio.
Da tanto tempo si parla di “cambio di paradigma”; ma i germi del cambiamento erano lì da parecchio, ed erano anni che i più avveduti avevano cominciato a introdurre cambiamenti profondi, a ridisegnare prodotti, processi, modi di produzione, business model grazie al digitale. E’ stata la pandemia che ha fatto precipitare il cambiamento, a imprimervi un’accelerazione incredibile.
E così, mentre prima si passavano mesi a litigare su come allocare qualche miliardo di €, ora ci troviamo improvvisamente di fronte alla sfida di investire efficientemente, in tempi brevi, 230 Miliardi: è questo il segno del cambio di paradigma. E non si possono utilizzare i metodi e i criteri che provengono dall’esperienza del Novecento: affrontare una trasformazione radicale fingendo che nulla sia avvenuto è la ricetta per il disastro.
Quali dunque alcune delle idee che sono emerse dalla tre giorni del Summit? Riassumiamone alcune tratte dall’intervento del Prof. Floridi.
La nuova sfida non è l’innovazione digitale, ma la governance del digitale. Oggi un’azienda che ha sufficientemente fondi compra tecnologia per l’innovazione digitale, ma il problema vero è cosa farci: in che direzione vogliamo andare come società, come azienda, come ambiente complessivo? Come governare l’integrazione di dati dai formati eterogenei, di data base che non si parlano, di sistemi informativi frammentati e di centri di potere autoreferenziali?
La rivoluzione digitale è ambientale, non è una rivoluzione massmediatica. Non è una questione di comunicazione, ma investe nel profondo la natura dell’ambiente informazionale in cui viviamo. Ma questo ambiente quanto è fragile e quanto è robusto? Quanta ecologia di questo ambiente vogliamo mettere in campo? Dobbiamo metterci in testa che andiamo verso un mondo ibrido, in cui la dicotomia online-offline è ormai solo un vecchio reperto novecentesco.
L’innovazione digitale è di design: non è né invenzione né scoperta. Il design significa mettere insieme vincoli e risorse, per risolvere un problema , in vista di un fine. Qui il design è design delle istituzioni, design dei business model, design dei servizi e dei prodotti, sfruttando quella proprietà unica del digitale di scollare e ri-incollare la realtà. Significa utilizzare il meglio che l’umanità ha mai prodotto, nella sua capacità creativa, per risolvere problemi senza utilizzare soluzioni vecchie.
E’ un’occasione per il nostro Paese, culla del design industriale, per estendere questa capacità creativa al mondo delle istituzioni, dei nuovi business model, delle necessarie innovazioni sociali nel mondo del welfare.
Il blu (del digitale) è amico del verde(dell’ambiente), per tre motivi: Perchè facciamo di più con meno, perché possiamo fare cose diverse da quelle che abbiamo fatto prima, e perché possiamo fare cose che prima non potevamo proprio fare. E queste tre caratteristiche consentono al digitale di scavalcare problemi che l’analogico non era in grado di gestire.
E’ il mondo delle “twin transformation”, in cui la rivoluzione digitale, più matura, puo’ contribuire potentemente allo sviluppo della transizione ecologica.
I nuovi colletti sono verdi (cura, non consumo). La prossima fase indotta dallo sviluppo del capitale vedrà il passaggio da un capitalismo del consumo a un capitalismo della cura, dove i capitali coinvolti sono immensi.
Sono concetti che hanno avuto ampia risonanza, all’interno e all’esterno del Summit. Alcuni di questi sono già patrimonio consolidato delle aziende e delle organizzazioni più avanzate; altri hanno un sapore ancora pionieristico (ad esempio, il “capitalismo della cura”) , ma siamo convinti che negli anni prossimi li vedremo affermarsi diffusamente.
Nel frattempo abbiamo ritenuto di condividerli con tutti i nostri lettori, prima di passare – nei prossimi numeri – ad esaminare più analiticamente le indicazioni operative uscite dalla tre giorni del Summit.
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