I vantaggi della diversity sono reali? Ovvero una strategia improntata alla pluralità e all’inclusione può regalare alle aziende una marcia in più in termini di inventiva, di capacità di visione e magari anche di vantaggio sulla concorrenza? Può rispondere non soltanto a una necessità etica di inclusione e pari opportunità, ma anche alle ragioni del business? D’istinto, verrebbe da rispondere di sì: avere all’interno di un gruppo un gran numero di identità, esperienze, competenze differenti significa disporre di più punti di vista sul mondo, di saperi, inclinazioni e talenti diversificati. E in effetti alcune evidenze suggeriscono che sia proprio così.
L’inclusione genera innovazione: i vantaggi della diversity nelle HR
Una ricerca condotta da Boston Consulting Group nel 2018, interpellando 1.700 dipendenti di aziende di otto Paesi (Austria, Brasile, Cina, Francia, Germania, India, Stati Uniti e Svizzera), ha evidenziato una correlazione tra la capacità di innovazione monetizzabile e la diversificazione della forza lavoro considerata secondo sei dimensioni, cioè bilanciamento di genere, nazionalità dei dirigenti, età, grado di istruzione, esperienze professionali precedenti.
In media, le aziende con una forza lavoro ben diversificata e inclusiva ottenevano il 45% del fatturato da prodotti o servizi innovativi (lanciati da non più di tre anni), le altre solo il 26%. Inoltre le imprese caratterizzate da maggiore diversity vantavano, mediamente, un utile operativo Ebit superiore del 9% a quello delle altre aziende.
Andando dall’altra parte del mondo, in Australia, si trovano risultati altrettanto interessanti. Una ricerca della Curtin Business School di Perth e del Bankwest Curtin Economics Centre (“2020 Gender Equity Insights Report”) ha evidenziato come alle aziende convenga avere un buon equilibrio di genere all’interno del proprio gruppo dirigente. Tendenzialmente, sotto la guida di una donna migliorano la profittabilità, le performance di mercato e la produttività. Questo studio ha dimostrato, inoltre, che aumentare di almeno il 10% la presenza femminile nei consigli di amministrazione permette alle società quotate di migliorare del 4,9% la propria valutazione di mercato. Eppure è donna solo il 17,1% dei chief executive officer delle aziende considerate e solo il 14,1% dei presidenti dei Cda.
Reputazione e fidelizzazione: i vantaggi della diversity nel marketing
Oltre alla diversity interna alle aziende, quella relativa alla forza lavoro, esiste una diversity “esterna”, per così dire, cioè rappresentata e comunicata all’esterno. Cioè con il marketing. Chi lavora in quest’ambito sa che un’elevata diversity può contribuire alla buona reputazione di un’azienda o marchio, e che una buona reputazione può fare da traino agli acquisti e alla fidelizzazione del cliente. Non a caso in anni recenti si è sviluppato un intero filone di marketing (chiamato, appunto, diversity marketing e più nello specifico diversity advertising) che è completamente trasversale alle categorie di prodotto e servizio e che si rivolge a un vasto, composito pubblico di utenti sensibili al tema dell’inclusione.
Lo vediamo dalla comunicazione di grandi marchi multinazionali, come Zalando e Ikea per esempio, che cercano di essere lo specchio della realtà: una realtà dove esistono le taglie plus-size e le famiglie non convenzionali, multietniche o create da coppie di fatto. Dopo aver già prestato il suo volto in campagna pubblicitarie di Nike e Vodafone, l’anno scorso la diciottenne inglese Ellie Goldstein è stata la prima ragazza affetta da sindrome di Down a diventare testimonial di un marchio del luxury, Gucci, per il lancio di un nuovo mascara. “Le nostre modelle sono belle. Senza se, senza ma, senza scuse. Al talento e alla bellezza non importa quante gambe tu abbia né con quale malattia tu sia nato”, si legge sul sito Web di Zebedee Management, l’agenzia britannica che annovera tra le proprie modelle le giovane Goldstein e che ha fatto della diversity la propria missione etica (ma anche una precisa strategia di posizionamento sul mercato).
Il mondo della cosmesi, lo stesso che nei decenni ha cementato l’idea di una donna perfetta, quasi sempre giovane e di etnia caucasica, negli ultimi anni ha iniziato a preoccuparsi dell’inclusione, per esempio ampliando la gamma delle tonalità di fondotinta. Il problema è solo apparentemente futile, perché la formulazione di un cosmetico e la sua comunicazione contribuiscono a determinare l’idea di bellezza socialmente accettata. In India l’industria della cosmesi, quella del cinema e l’advertising sono complici nella diffusione di discriminanti stereotipi sul colore della pelle (come racconta questo illuminante documentario).
Certo, il diversity advertising può essere un’operazione di facciata ma può anche, alla lunga, contribuire a liberare finalmente il mondo della pubblicità da certi stereotipi di presunta “normalità”. Similmente, possiamo dire che il tornaconto non dovrebbe rappresentare la prima motivazione alla base di una politica di assunzioni improntata alla diversity, ma se le ragioni del business e l’etica vanno d’accordo allora si creano circoli virtuosi che fanno bene a tutti: a chi cerca un lavoro adeguato alle proprie capacità e anche alle aziende.
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