Il summit Cop26 delle Nazioni Unite di Glasgow ha portato la lotta al cambiamento climatico al centro della politica mondiale, oltre che sotto i riflettori mediatici, come forse mai prima d’ora era accaduto. Tante le sfide, le promesse, i protagonisti ( Da Papa Francesco a Mario Draghi, da Jeff Bezos al principe Carlo) che supportano la missione mondiale di azzerare le emissioni nette di gas serra entro il 2050 e provare, così, a contenere entro 1,5° gradi centigradi l’aumento delle temperature medie.
Lo stop alla deforestazione, la transizione verso i veicoli elettrici, l’accelerazione dell’abbandono del carbone e gli investimenti in energie rinnovabili sono le quattro azioni di transizione ecologica imperative per arrivare alla meta della neutralità climatica in meno di un trentennio. Sarà un lavoro faticoso e lungo, per il quale non basteranno certo interventi isolati e di breve periodo. E sarà una lotta contro il tempo, considerando l’aggravarsi esponenziale degli indicatori di inquinamento globali.
Tagliare le emissioni di gas serra per contenere il surriscaldamento
Secondo i calcoli dell’Organizzazione meteorologica mondiale, la concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera in cinque anni è cresciuta da 400 parti per milione (nel 2015) alla soglia record di 419 ppm registrata ad agosto di quest’anno. Ed è stato davvero un record, battuto soltanto dal livello di ppm di CO2 che la Terra aveva registrato milioni di anni fa, da tre a cinque, quando la temperatura era più alta di due o tre gradi rispetto a quella attuale.
Uno studio del gruppo intergovernativo Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change) quantifica le attuali emissioni totali di gas serra, cioè anidride carbonica, metano e biossido di azoto, in 40 miliardi di tonnellate all’anno. Senza azioni di contenimento, saremo condannati a un aumento medio della temperatura di 3,3 gradi rispetto ai livelli di fine Ottocento (l’anno 1880). Per limitare a 1,5 gradi il surriscaldamento globale sarà tassativo non superare i 500 miliardi di tonnellate di emissioni da qui al 2050.
Una tra le catastrofi da scongiurare sarà l’ulteriore innalzamento del livello degli oceani, che negli ultimi trent’anni ha subìto un’accelerazione a dir poco allarmante. Secondo l’Organizzazione meteorologica mondiale, tra il 1993 e il 2002 tale livello è cresciuto, in media, di 2,1 millimetri l’anno, mentre tra il 2013 e il 2021 l’innalzamento medio annuo è stato più che doppio, 4,4 millimetri.
L’impegno dei Paesi per la lotta al cambiamento climatico
Il settore dell’allevamento di bestiame contribuisce per il 30% alle emissioni di metano mondiali, e seguono per rilevanza l’industria dell’oil&gas e le discariche. A Glasgow è stato raggiunto un importante traguardo, che è però soprattutto un punto di partenza: la firma di un accordo che impegna 105 Paesi a tagliare i livelli nazionali di emissioni di metano del 30% entro il 2030 (il termine di paragone sono i livelli del 2020). Nella lista dei firmatari mancano però tre Paesi chiave come Cina, Russia e Australia.
Brutta sorpresa anche da un’altra grande e popolosa geografia, l’India, che è il terzo inquinatore mondiale dopo Cina e Stati Uniti. Durante Cop26 il premier indiano Narendra Modi ha annunciato che il Paese è impegnato nell’obiettivo della neutralità climatica ma con un orizzonte temporale molto largo: emissioni zero non prima del 2070, cioè vent’anni dopo rispetto al traguardo fissato dal summit. Ha stupito in positivo, invece, il Brasile, il cui ministro dell’Ambiente Joaquim Leite ha promesso il dimezzamento delle emissioni di gas serra entro il 2030 e l’azzeramento entro il 2050. Sarebbe un vero cambio di rotta, dopo anni di deforestazione intensa sotto la presidenza di Bolsonaro.
Dal Glasgow il premier italiano Mario Draghi, reduce da un G20 di Roma già incentrato sul tema del cambiamento climatico, ha chiamato alle armi il settore privato e quello pubblico. “Se si riesce a portare nella partita i capitali privati, ci si accorge che i soldi non sono un problema. Parliamo di migliaia di miliardi”, ha detto Draghi, spiegando poi che il modo migliore per attrarre gli investimenti del settore privato è far sì che il settore pubblico prenda in carico parte del rischio.
D’altra parte il rischio maggiore sarebbe quello di non fare nulla. Secondo uno studio della Fondazione Cmcc (Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici), titolato “Atlante dei rischi climatici del G20. Impacts, policy, economics”, in assenza di interventi urgenti i Paesi del G20 in media subiranno una perdita di Pil del 4% per ciascun anno da qui al 2050. Nei cinquant’anni successivi, poi, il danno potrà anche superare l’8% del Pil annuo. Per l’Italia l’impatto calcolato è una quota compresa fra il 2% e il 4% del Pil da qui al 2050, ovvero una perdita di 36 miliardi di euro nella migliore delle ipotesi e di 116 miliardi di euro nella peggiore. Parte del danno riguarderà il settore turistico, penalizzato dalla perdita di attrattività di località diventate troppo calde o non più innevate durante la stagione sciistica.
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