N. Gennaio 2021
a cura di Elena Vaciago
Associate Research Manager, The Innovation Group
L’emergenza pandemica del 2020 ha portato a un’ampia adozione dello smart working, ma cosa succede realmente alle persone quando lavorano da sole, lontane dall’ufficio e dai colleghi? Quali sono i pregi e i difetti di un’operatività e di una comunicazione mediata dalle tecnologie (videocall)?
Ne parliamo in questa intervista con Vittoria Pietra, Psicologa Psicoterapeuta, che su questi temi è intervenuta lo scorso 21 ottobre nel corso del Tavolo di Lavoro “Smart Working: come sta trasformando il lavoro, le imprese e le organizzazioni pubbliche. Il ruolo della tecnologia” del Digital Italy Summit 2020.
La recente esperienza dello smart working può essere secondo Lei un’opportunità per cambiare la cultura prevalente in ambito lavorativo?
È un po’ il discorso di come intendiamo il tempo lavorativo. I greci usavano due definizioni di tempo: il kronos e il kairos. Il kronos è il tempo della clessidra, dei minuti che passano, il kairos è invece il tempo dell’occasione, quello in cui qualcosa di speciale accade. Quando sento parlare di cambio di cultura la mia mente va a quest’ultimo: la strada da seguire è quella di portare il lavoratore dipendente a considerare il tempo non in termini di ore di lavoro spese ma come occasione. Questo chiaramente si ricollega alla maggiore responsabilità e alla gestione per obiettivi, che vede oggi una differenza marcata tra lavoratori dipendenti e autonomi.
Dal suo punto di vista come psicologa, cosa è mancato alle persone nell’esperienza fatta con lo smart working dell’ultimo periodo?
Il punto focale è che ci sono delle caratteristiche basilari delle persone che non hanno nulla a che fare con la cultura quanto piuttosto con la loro stessa natura. Ad esempio, immaginiamo di mettere una persona dentro una stanza a lavorare da solo, con un compito da svolgere, sapendo che prima o poi qualcuno verrà a controllare: cosa succede a chi ha un compito ed è in attesa di ricevere un feedback, un responso? All’inizio ci comportiamo tutti nello stesso modo (tranne chi si rifiuta fin dall’inizio di eseguire il compito): incominciamo tutti a svolgerlo con attenzione, passato un certo lasso di tempo però le persone si polarizzano in due gruppi. I primi, cominciano ad agitarsi e a chiedersi “Avrò fatto bene?”, “Come posso migliorare?”. Quindi rileggono, cancellano, riscrivono, aggiungono, vanno fuori tema, si sbagliano, non si fermano e in sostanza lavorano il doppio, proprio perché non arriva il feedback che li rassicura sul fatto che hanno svolto bene il lavoro. L’altra metà invece fa l’opposto: l’assenza o il ritardo del confronto con un’altra persona non gli permette di capire cosa manca al lavoro, cosa può migliorare, dove sta andando, quindi rallenta e si ferma, si distrae, iniziano a svagarsi, a perdere voglia e spinta, smettono di mettere cura perché gli sembra che non ne valga più la pena. Cosa concludiamo? Semplicemente che siamo fatti così, siamo esseri viventi che hanno bisogno di risposte, di indicazioni che arrivano principalmente dagli altri. Parlando di smart working, va considerato quindi che purtroppo ha un limite importantissimo, quello della fisicità, del contatto continuo con gli altri, delle risposte che devono arrivare e tutte le video call che facciamo non suppliscono a questa domanda di attenzione continuativa.
Cosa cambia quando si lavora in ufficio?
Quando siamo in ufficio abbiamo due tipi di attenzione presenti in contemporanea, una focalizzata sul lavoro, ed una più “diffusa” che raccoglie informazioni implicite sull’ambiente circostante e sui colleghi; quest’ultimo è un tipo di attenzione che è sempre attiva, spesso inconsapevolmente, perché ci fornisce una serie di dati fondamentali per il nostro cervello. Cosa ci succede invece quando siamo senza queste informazioni? All’inizio siamo rilassati, sicuramente più concentrati, ma poi iniziamo a preoccuparci, ci agitiamo e ci frustriamo. L’uomo è l’unica specie vivente che passa una gran parte del proprio tempo a guardare e osservare la vita dei propri co-specifici. Se ci fate caso, tra televisione, video, libri, serie tv, chiacchiere, giornali, ci nutriamo ininterrottamente della vita degli altri. Perché lo facciamo? Siamo strutturati in modo da derivare la gran parte della nostra conoscenza e capacità dall’osservazione delle vite altrui, è proprio questo che ci ha fatto fare un salto di qualità rispetto a tutte le altre specie viventi: quando abbiamo incominciato ad essere dei raccoglitori di storie, dei tramandatori di storie, abbiamo sviluppato il linguaggio e l’immaginazione; la cultura si è sedimentata nel trasferimento dagli uni agli altri. Il cosiddetto “gossip” o pettegolezzo è fondamentale per gli esseri viventi, ed è una delle funzioni superiori della nostra corteccia prefrontale, attività sofisticata che richiede la sintonizzazione con chi mi sta davanti, la capacità di parlare di ciò che non c’è materialmente presente e la necessità di esporre il proprio punto di vista, seppur in un contesto non agonistico. Per le donne è una grossa perdita, visto che questo permette loro di raccogliere informazioni sul mood del contesto e su dove si sta andando. Per gli uomini invece, la mancanza di un contesto vivo attorno, deteriora la capacità di percepire il loro posizionamento sociale: anche questo non è banale, ci viene da pensare che una volta che una persona ha un certo ruolo, lo mantiene, ma dal punto di vista cerebrale questo non è scontato, noi continuiamo a confrontarci anche solo con un’unica persona o collega presente nella stanza o addirittura nel palazzo.
Cosa è emerso nell’ultimo periodo, analizzando gli aspetti emotivi? E come superare i problemi che si sono creati?
Abbiamo assistito a crisi di burnout, stress acuto, depressione, senso di isolamento: i dati non sono confortanti. La tecnologia ci ha reso possibile lavorare, questo è vero ed abbiamo un debito di riconoscenza, ma è emersa anche una grande ansia. Quello che personalmente mi ha preoccupato di più è stato scoprire che per molti, alla domanda: “da chi vorresti ricevere un supporto nei momenti di difficoltà”, la preferenza è andata verso i chatbot. La spiegazione (riportata dal 70% delle persone che preferirebbe rivolgersi ad un robot per trovare sostegno) è che quest’ultimo non ha le sopracciglia, quindi non può esprimere disappunto o riprovazione, e viene considerato uno strumento capace di formulare un giudizio assolutamente imparziale.
In sostanza, se dovesse prolungarsi di molto questo distanziamento, noi rischiamo di trasformarci in incompetenti sociali; basta pensare che la competenza sociale è una funzione complessa che insegniamo ai nostri figli a partire dal giorno in cui nascono, ed è dai 10 anni in avanti che i ragazzini incominciano a diventare socialmente competenti. Ma ci vuole poco per perdere di nuovo la mano, se non possiamo esercitare questa abilità.
Nell’ultimo anno, grazie alla tecnologia, sono aumentate moltissimo le video call, e questo è perché (nonostante quello che viene detto dagli intervistati) noi abbiamo bisogno di vedere facce che si muovono ed esprimono pensieri ed emozioni, perché altrimenti – senza queste cose – perdiamo il controllo di quello che siamo. Cosa si potrebbe quindi fare per migliorare la situazione che ci si prospetta davanti?
È una domanda molto difficile: resto dell’idea che un importante aiuto venga sempre da un aumento della consapevolezza, dalla possibilità di parlare di quello che accade, di come viviamo questo cambiamento e capire se questo stia aumentando oppure no i nostri margini di libertà e di scelta.
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