Qual è stato l’impatto della pandemia all’interno di Prysmian, una multinazionale da 30mila addetti?
Nel febbraio/marzo 2020, quando il Covid-19 ha travolto tutto il sistema Paese e poi il mondo, il primo risultato ottenuto è stato scoprire che la pandemia non ha trovato l’azienda impreparata perché era stato intrapreso un percorso verso lo smart working già a partire dal 2016, quando si era iniziato a costruire attorno al dipendente un percorso di smart working olistico, non limitato alla remotizzazione di alcune attività ma incentrato sul bisogno di un employee del futuro e sulla sua intera esperienza. Per tali ragioni, nel momento in cui si è diffusa la pandemia, Prysmian era già pronta allo smart working sia dal punto di vista tecnologico (era stata presa la decisione di dare i notebook a tutti i dipendenti dal 2016, erano stati adottati i sistemi cloud, di virtualizzazione ed erano già diffusi in azienda i tools di collaborazione) sia da altri punti di vista più soft.
Durante la pandemia e il ricorso forzato allo smart working è emerso un ulteriore aspetto di rilievo, ovvero la prontezza organizzativa e culturale dell’azienda: le persone hanno reagito benissimo alla situazione, scoprendo (anche da parte dei più scettici) il valore della fiducia nelle persone (e quindi del trust), il concetto dell’accountability e del senso di responsabilità.
Pur trattandosi di un’esperienza positiva sono comunque emersi dei dubbi, relativi in modo particolare a delle criticità su alcuni dei principi alla base dello smart working. Al riguardo si parla di crisi dello “smart working 1.0”: nella costruzione del modello di smart working di Prysmian era stata considerata quasi marginalmente la virtualizzazione dell’attività, concentrandosi piuttosto sull’architettura degli uffici, promuovendo lo sviluppo di un’architettura che favorisse spazi di aggregazione, incontri informali, open space, ecc… Si tratta di un paradigma oggi del tutto scardinato che induce al ripensamento dell’ufficio del futuro: bisogna riconcepire gli elementi positivi e differenzianti che non possono essere sostituiti da una realtà totalmente virtualizzata (si pensi, ad esempio, alla dimensione relazionale, al tema della creatività), considerando allo stesso tempo che è possibile utilizzare la remotizzazione come un’opzione per migliorare la qualità della vita. Per tali ragioni la parola chiave per il futuro sarà il concetto di ibrido: nel futuro, infatti, non vi saranno più né riunioni in sovrapresenza né in totale remotizzazione, richiedendo, così, un ripensamento dei modi di lavorare su questi modelli. È un tema di capacità di inclusione e non di esclusività: non si tratta di comprendere cosa sia meglio o peggio, è piuttosto un’opportunità di scegliere l’opzione migliore a seconda del bisogno e dell’obiettivo.
In questo senso, quindi, con lo smart working è stato scoperto di avere più opzioni di scelta e di poter scegliere a seconda dei propri bisogni: si pensi, ad esempio, agli uffici che saranno di conseguenza più vuoti e che potrebbero essere parzialmente riconvertiti in digital hub per ospitare altre realtà (ad esempio, dimensioni accademiche universitarie, startup). Tali ripensamenti non dovranno avvenire soltanto all’interno delle mura delle aziende, dovranno essere globali, coinvolgendo anche le città: si pensi, ad esempio, alla possibilità di rendere fruibili spazi rurali attualmente poco sfruttati, di sviluppare degli “smart villages” oltre che le smart cities (al riguardo un fenomeno a cui si è assistito nell’ultimo anno è quello del south working e quindi della possibilità di rivalorizzare aree del Sud Italia che erano state represse nell’industrializzazione che ha contraddistinto il Paese fino ad oggi).
Il Covid-19 e l’esperimento forzato dello smart working ha mostrato anche come alcune attività, che in precedenza si credeva potessero essere svolte soltanto fisicamente, in realtà possono essere remotizzate, relative in modo particolare all’industria e al manufacturing: all’interno di Prysmian, ad esempio, è stato possibile fornire l’accesso virtuale ai clienti per il controllo di alcune attività. In questo contesto, strumenti digitali che nel mondo digitale si appoggiano a soluzioni quali IoT o digital twin possono permettere la gestione remotizzata anche del governo di alcune strutture.
Lo scenario futuro? Se finora si è investito moltissimo nei digital workplace per i “white collar” perché non ipotizzare la stessa cosa per i “blue collar”? Del resto che le fabbriche possono essere digitalizzate fortemente grazie alle nuove tecnologie è stato ben dimostrato nell’ultimo anno.
L’auspicio è, dunque, che tra dieci anni ci siano fabbriche in cui l’interazione tra uomo e macchina avvenga attraverso linguaggio naturale e in cui le macchine siano in grado di riconoscere l’espressione verbale operaio e viceversa. Si pensi anche alla possibilità di disporre di macchine in grado di avvisare l’operaio qualora sia in pericolo o che permettano di lavorare su elementi di contesto quali la riduzione del rumore (le fabbriche sono ancora molto rumorose). La tecnologia c’è già, Intelligenza Artificiale e sensoristica già permetterebbero simili attività.