Per trasformare il comparto agricolo italiano le tecnologie da sole non bastano. Servono cultura, ricerca, nuovi modelli organizzativi e integrazione dei dati.
Prima di poter raccogliere i frutti dell’agricoltura digitale, l’Italia ha ancora molto da seminare. Robotica, sensori, connessioni Internet of Things, analytics, intelligenza artificiale sono potenti strumenti di trasformazione, che sempre più in futuro consentiranno efficienze e un miglior uso delle risorse (terreni, fertilizzanti, acqua, energia) per ottenere risparmi, taglio degli sprechi, riduzione dell’impatto ambientale. Le tecnologie ci sono, ma alla loro adozione si frappongono ostacoli di natura economica, infrastrutturale, organizzativa, culturale. “L’agricoltura è il terreno più fertile per declinare la transizione ecologica e quella digitale e ora bisogna fare subito un salto quantico verso l’innovazione del settore primario, parlando di 5.0“, ha dichiarato il ministro delle Politiche agricole alimentari e forestali, Stefano Patuanelli, ospite dell’Agrifood Tech 5.0 Summit organizzato da The Innovation Group a Roma lo scorso aprile. Gli incentivi del Piano 4.0 sono una risorsa da sfruttare, ma non l’unica. “Per aggredire i mercati esteri abbiamo bisogno di un’agricoltura più forte e competitiva”, ha detto Ivano Vacondio, presidente di Federalimentare. “Il sistema della manifattura alimentare ha avuto il grande vantaggio del 4.0, che ha permesso una grande spinta sugli investimenti, e se la digitalizzazione nel nostro settore è diventata un elemento straordinario è proprio perché abbiamo sfruttato questa grande risorsa. Ma per utilizzarla abbiamo bisogno di costruire valore, perché gli investimenti vanno fatti anche con capitale proprio”.
Nel nostro Paese solo una piccola fetta dell’attività agricola è coperta dagli incentivi del Piano 4.0. Le imprese più digitalizzate, in percentuale, sono quelle del Veneto, Piemonte, Friuli Venezia Giulia e Abruzzo, ma lo scenario nazionale è assai immaturo.“Abbiamo un livello molto basso di digitalizzazione delle aziende agricole, in alcuni casi prossimo allo zero”, ha illustrato Massimiliano Giansanti, presidente di Confagricoltura. “Il dato nazionale è del 4%, nelle isole siamo al 2%. Solo 112 comuni rurali sono raggiunti dalla fibra ottica, al contrario dei 1.936 che dovranno essere cablati. Ancor prima di parlare di agrifood tech, la questione da affrontare è il ritardo tecnologico. Senza le connessioni e senza le infrastrutture difficilmente realizzeremo qualcosa”.
L’altro grande tema, citato da un po’ tutti i relatori del summit, riguarda la formazione e la cultura digitale. “Il capitale umano è quello che fa la differenza in azienda, più ancora ancora dei sensori”, ha sottolineato Stefano Vaccari, direttore generale del Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria. “Il Crea su questo sta investendo molto e con soldi propri, perché purtroppo il Pnrr non favorisce la ricerca agricola. Stiamo investendo in formazione e in un’agricoltura di precisione che sia collettiva, un’innovazione diffusa. Singole imprese agricole capaci di entrare in un modello completamente digitalizzato in Italia ce ne sono poche, ma ci sono grandissime reti capaci di farlo, a cominciare dalle organizzazioni professionali e dal mondo della cooperazione”.
“Se non continuiamo a insistere su una formazione che non riguardi solo le università ma parta già dagli istituti tecnici, allora non abbiamo ben chiare le figure di cui abbiamo bisogno nelle nostre imprese”, ha sottolineato Ettore Prandini, presidente di Coldiretti. “Inoltre la formazione non si deve concludere nell’ambito scolastico bensì proseguire sempre”. Prandini ha rimarcato l’importanza degli obiettivi di sostenibilità, anche di fronte a esigenze contingenti di altro genere, come l’aumento della capacità produttiva nazionale. L’innovazione (in particolare nella meccanizzazione e nell’agricoltura di precisione) può permetterci di raggiungere entrambi i risultati, ma serve anche una maggiore cooperazione tra produttori e distributori, tra imprese agroalimentari e Gdo, due mondi che in Italia spesso scaricano uno sull’altro le responsabilità. Inoltre, per ridurre la dipendenza del nostro comparto agroalimentare dal costo delle materie prime energetiche, dei concimi e degli antiparassitari, bisognerebbe puntare sulla genomica ma il disegno di legge sulla possibilità di fare sperimentazione in campo è fermo.
Oltre alle infrastrutture, alla formazione e alla ricerca, un quarto grande tema è quello dell’accesso ai dati. “La digitalizzazione in agricoltura agevola il settore in tutte le fasi, dalla produzione alla trasformazione”, ha osservato Giorgio Mercuri, presidente della Alleanza Cooperative Agroalimentari. “Ma mettere in campo tecnologie digitali, robot, sensori è solo metà del percorso. Il grande lavoro è il recupero dei dati, che serviranno a sviluppare soluzioni di intelligenza artificiale capaci di dare la svolta al futuro delle produzioni”. La potenza dei dati sta però nella loro somma e integrazione, dunque Mercuri (e con lui altri ospiti del summit) ha sottolineato l’importanza di creare una o più piattaforme Big Data nazionali. Un buon punto di partenza sono i dati satellitari che già oggi permettono di tracciare parte delle attività agricole.
Che nel digitale non si possa procedere da soli lo ha rimarcato anche Maurizio Martina, vicedirettore generale della Fao ed ex ministro dell’Agricoltura. “Non possiamo disgiungere la riflessione sull’implementazione tecnologica da una riflessione sui modelli organizzativi dei sistemi agricoli italiani”, ha detto Martina, invocando un’innovazione di tali modelli e il pieno ricorso a strumenti cooperativi, di distretto, di filiera, vitali per un settore fatto soprattutto di piccole e medie aziende. “Altrimenti penso sia difficile compiere realmente questa svolta tecnologica necessaria”, ha rimarcato Martina. Gli ha fatto eco Maria Chiara Carrozza, presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche, sottolineando che “senza una visione ad ampio spettro non riusciremo a portare il nostro sistema dell’agricoltura nel nostro secolo. Essere nel nostro secolo non vuol dire digitalizzare, investire solo sulla globalizzazione e rendere tutto tecnico, bensì avere una visione complessiva, biosostenibile, che ci permetta di raggiungere gli obiettivi di compatibilità con l’ambiente. Per fare questo servono essenzialmente la cultura, l’investimento in nuovi modelli organizzativi e l’alleanza strategica. Il Cnr ci sarà, con il suo dipartimento e i suoi nuovi istituti, ci sarà sempre di più e si concentrerà sulla ricerca fondamentale”.
Ricevi gli articoli degli analisti di The Innovation Group e resta aggiornato sui temi del mercato digitale in Italia!