Il termine “crisi” non vuol dire problema o sofferenza, sta piuttosto a significare scelta, decisione: deriva, infatti, dal greco “krino” che rappresenta un punto di rottura ed è importante sottolineare tale aspetto in quanto evoca il processo di scelta. Molto spesso si parla della volontà di voler assumere delle decisioni razionali: in realtà di puramente razionale all’interno del processo cognitivo c’è soltanto il ragionamento matematico, che possa essere definito razionale secondo l’accezione corrente. L’assunzione di una decisione infatti si basa su un mix di fattori quali esperienze pregresse, stato d’animo di un particolare momento, scopi prefissati di varia natura (personali, culturali, sociali, comunitari, familiari) e poi aspettative, credenze morali, disposizione fisica; quali di queste variabili possono essere razionali, precise, non “intaccate” dalle emozioni?
A proposito delle emozioni, c’è una sempre maggiore ricerca di metodi e strategie che aiutino a controllarle o addirittura eliminarle, soprattutto quando vengono considerate negative (al riguardo va precisato che non esiste una polarità positiva/negativa tra le emozioni, piuttosto si può dire che alcune sono più dolorose ed intense di altre), ma tutte contribuiscono al monitoraggio e alla salvaguardia dei nostri scopi, che è la loro funzione principale: informarci in maniera chiara e “sensibile”, sullo stato di raggiungimento di ciò che ci siamo, consapevolmente o inconsapevolmente, prefissati come obiettivo. Peccato però che le emozioni non possano e non debbano essere controllate: più si tenta di farlo e meno le si conoscono, diventa oscuro lo scopo che abbiamo ed il rischio che si corre è quello di perdersi in scelte e decisioni che non si è più in grado di prendere; se si fosse realmente in grado di eliminare le emozioni si arriverebbe ad un punto in cui tutto si equivale e niente può essere scelto.
La principale emozione vissuta nei mesi del lockdown è stata ed è la paura. La paura è un’emozione a cui non si accede con facilità, sembra che sia così perché la si cita, ma in realtà il riferimento è più che altro alla preoccupazione, più comunemente conosciuta come ansia: paura ed ansia non sono sinonimi e non sono la stessa cosa, hanno neurotrasmettitori che le codificano differenti, vie nervose diverse, differenti aree sensoriali ed output. La reale differenza tra paura e ansia è che la paura si attiva di fronte ad una minaccia incombente, imminente e circoscritta – per quanto possa essere enorme e terrorizzante – l’ansia invece è molto più diluita, tant’è vero che possiamo essere preoccupati per qualcosa che accadrà nel futuro, qualcosa che può anche essere ipotetico e sfuocato. In modo particolare, la paura viene definita un’emozione “tiranna” perché fa il vuoto intorno, si impone, interrompe qualunque processo cognitivo in atto perché è l’emozione salvavita, ed è necessario che le venga dato ascolto; probabilmente proprio per il suo alto valore adattativo, è l’unica emozione in grado di generare tre tipi di comportamento diversi (non contemporanei ma vicendevolmente escludentisi): l’attacco, la fuga, la paralisi o freezing.
Ma se noi guardiamo a ciò che è successo in questi ultimi mesi, nel pieno della pandemia, nonostante lo stato emotivo caratterizzato da un’emozione così forte come la paura, le persone sono state in grado di organizzarsi, andare avanti, continuare a lavorare, a vivere; e nella maggioranza dei casi l’hanno fatto anche molto bene. E’ l’occasione che ci dimostra che per poter prendere delle decisioni efficaci, ed essere così resilienti, è necessario essere emozionati. A proposito di resilienza, non è chiaro a tutti quali siano le due caratteristiche che devono essere presenti perché si possa parlare di questo fenomeno: la deformazione e il mantenimento dello scopo fisso. Ci si può definire resilienti innanzitutto se ci siamo “deformati”, abbiamo perso la nostra forma usuale, abbiamo cavalcato un corpo e delle abitudini diverse pur mantenendo inalterati i nostri scopi (se, invece, l’individuo è rimasto lo stesso stiamo parlando di resistenza).
Durante la pandemia tutti noi abbiamo perso la nostra forma usuale (pensiamo alle vacanze fatte nel cortile di casa, allo smart working o all’e-learning), dimostrando una grande resilienza e, appunto, la capacità di deformarsi mantenendo fisso uno scopo (che sia lavoro, viaggio, affetti).
L’esempio più chiaro, semplice e aggiornato di che cosa voglia dire essere resilienti, è rappresentato dai virus: sono forme considerate semi-inanimate che però prendono la forma del corpo che li ospita ed incominciano ad essere vitali, mantenendo il proprio DNA, che ricombinano insieme a quello dell’ospitante, e perseguendo con grande tenacia il loro scopo unico, ovvero riprodursi il più possibile.
È, dunque, dal paradigma del virus – sia esso biologico o tecnologico – che potremmo imparare, ahimè, come essere davvero resilienti.