I sistemi di riconoscimento biometrico, come la lettura dell’impronta digitale o dei tratti somatici, sono un bene o un male per la società? Non possiamo dare una risposta secca perché naturalmente le tecnologie non sono mai buone o cattive, è il modo in cui vengono adottate ciò che può fare di loro una potente leva di progresso oppure un mezzo che accentua l’ingiustizia sociale. Più spesso nei concreti casi d’uso si mescolano buone intenzioni ed esiti negativi, come accade con il programma biometrico del Public Distribution System, il sistema di sicurezza alimentare istituito dal governo indiano.
Il programma Aadhaar, nato nel 2009 per iniziativa del Ministero dell’Elettronica e dell’Informatica indiano, è il più grande sistema di riconoscimento biometrico delle identità al mondo. Il sistema si appoggia a una rete di terminali, attraverso i quali le persone eseguono la procedura di identificazione biometrica che verifica la loro identità e dà il semaforo verde per l’erogazione di sussidi alimentari.
Per quanto lodevole nel principio, questo programma ha tra i suoi esiti diversi tipi di ingiustizie, di data injustice, come le chiama Silvia Masiero, professore associato di Sistemi informativi all’Università di Oslo. Con lei abbiamo parlato delle ingiustizie legate al riconoscimento biometrico, ma anche del rapporto fra tecnologie e pandemia e delle “storie silenziose” del covid-19.
Per approfondire il tema, vi invitiamo a scaricare gratuitamente il libro “Covid from the margins. Pandemic invisibilities, policies and resistance in a datafied society”, di cui Silvia Masiero è co-editor insieme a Stefania Milan ed Emiliano Treré. Una raccolta (multilingue) di storie silenziose ai tempi della pandemia, testimonianze che spaziano dalle condizioni dei migranti nei Paesi europei a quelle degli autisti di Uber in Brasile, dalla violenza domestica sulle donne allo scontro fra Inghilterra e Scozia sulle applicazioni di contact tracing e sulla gestione dei lockdown.
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