Stando all’ultimo rapporto della Commissione Europea sul “Digital Economy and Society Index (DESI)”, l’Italia si posiziona ancora al quart’ultimo posto tra i Paesi europei per il progresso verso un’economia e una società digitali. A pesare maggiormente sono la modesta connettività e lo scarso uso di servizi internet ma anche, e soprattutto, il capitale umano e le competenze digitali.
Dal rapporto si evince infatti che il numero di specialisti ICT nel paese costituisce il 2,6% della forza lavoro nel 2018, a fronte di una media europea del 3,6%. Inoltre, i laureati in discipline scientifiche, tecnologiche e matematiche (STEM) sono diminuiti dal 13,9% del 2017 al 13,5% di quest’anno, il che suggerisce una mancanza di fondamentali rispetto a quanto necessario per la creazione di un’economia digitale. In particolare, facendo fede a dati del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (MIUR), i laureati in discipline informatiche ammontano nel 2017 solo al 2,4% del totale dei laureati per quell’anno, a fronte di una media europea del 3,2%.
Nonostante il tema dello skill-shortage (carenza di competenze) per quanto riguarda l’informatica sia un tema ricorrente a livello globale, in Italia sembra acquisire il rango di vero e proprio limitatore del processo di trasformazione digitale nel Paese. Il dato indicativo viene dall’ISTAT che, nella sua rilevazione riguardo all’uso di tecnologie dell’informazione e della telecomunicazione (ICT) in azienda per il 2016, evidenzia come tra le aziende italiane che abbiano assunto o provato ad assumere specialisti ICT, ben il 32,3% delle imprese abbiano avuto difficoltà a coprire i posti vacanti.
Considerando le difficoltà settoriali è nella manifattura che si registrano le maggiori criticità. Secondo una rilevazione di Federmeccanica relativa al secondo trimestre del 2018, il 42% delle imprese che operano nel settore non riesce a reperire figure professionali con competenze tecnologiche e digitali avanzate, necessarie alle attività aziendali. Il dato è significativo, soprattutto se si considera che il manifatturiero italiano rischia di perdere competitività negli anni a venire se non sarà in grado di integrare le opportunità offerte dalla trasformazione digitale alla produzione industriale. L’esempio dell’industria, tuttavia, simboleggia un trend che attraversa tutti i settori economici. Secondo quanto riportato da una survey condotta da EY, solamente il 35% delle imprese intervistate considera le competenze tecnologiche disponibili adeguate alle proprie necessità.
È evidente come il problema sia sistemico e altrettanto lampante è che una questione di tale portata non possa essere risolta solamente tramite politiche imposte dall’alto, ma debba necessariamente essere affrontata anche attraverso una rivoluzione culturale dal basso, mediante iniziative private, eventi informativi o programmi formativi. A tal proposito un esempio illustre è Facebook che ha recentemente inaugurato Binario F, uno spazio che si propone di raggiungere 97.000 individui entro il 2019 attraverso programmi di formazione che pongono al centro gli e-skills. Seppur di più modesta entità, altri esempi importanti e legati in maniera diretta al mondo universitario sono Microsoft, con il programma MAIA, Dedagroup, con la sua Digital Academy, o IBM che offre servizi di formazione al mondo accademico.
Per ridurre il gap con il resto del continente c’è molto da fare e quel che è certo è che non si può pensare che le politiche pubbliche siano l’unica soluzione a questo problema. L’investimento privato, per così dire “dal basso”, è infatti fondamentale per la creazione di una cultura digitale che possa dare l’impulso necessario al processo di trasformazione tecnologica del Paese.